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La sincerità di Borg: “Non mi sono ritirato, sono fuggito. Il tennis mi ha distrutto, poi mi ha salvato”

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Nell’intervista esclusiva concessa a la Repubblica in occasione dell’uscita della sua autobiografia “Battiti” (Rizzoli), Bjorn Borg apre finalmente il sipario sulla sua vita lontano dai riflettori. E lo fa con una sincerità quasi spiazzante. Dalla gloria assoluta – undici titoli Slam, cinque Wimbledon consecutivi e un’impronta tecnica che ha rivoluzionato il tennis moderno – a una crisi personale profonda, fatta di eccessi, dipendenze e solitudine.

Il mio non fu un ritiro, ma una fuga“, confessa la leggenda svedese a Emanuela Audisio, ricordando il momento in cui, a soli 26 anni, decise di abbandonare il tennis. Una scelta clamorosa, dettata non da ragioni tattiche, ma da una sorta di vuoto esistenziale che neanche le vittorie riuscivano più a colmare. “Non ne potevo più. Persi da McEnroe, andai a fare la doccia, disertai la premiazione, e con i capelli ancora bagnati mi diressi con mia moglie e con Bergelin a Sands Point, Long Island, dove avevo casa. Era piena di ospiti, avevano programmato una festa, mi davano tutti per favorito, quando arrivai calò un velo di delusione, ma il più avvilito ero io, non salutai nessuno, attraversai il giardino. “Leave me alone”, urlai a chi mi voleva seguire. Volevo stare solo, ubriacarmi, non provavo più gioia in campo, ma fuori non ero nessuno. Tutti volevano qualcosa da me e io mi chiedevo: è davvero così che devo passare ogni giorno della mia vita? Rientrai in casa dopo ore, salutai, sapevo recitare la parte. Ma era finita e l’avevo deciso in quella piscina

Il periodo post-carriera è stato tutt’altro che dorato. Tra serate alcoliche, droghe e relazioni caotiche, Borg si è trovato sull’orlo del collasso fisico e mentale. Probabilmente, anche a dover fare i conti con i rimpianti per un addio (al tennis giocato) forse troppo precipitoso. “Non so, avrei potuto fermarmi un po’ e riprendere dopo. È quello che suggerivano tutti. La Diadora, uno dei miei sponsor, arrivò ad offrirmi quote dell’azienda per farmi tornare. Ma lo ammetto, andarsene così fu uno sbaglio, ero solo, senza piano di riserva, i primi tempi ero contento, finalmente ero libero, niente più orari e impegni, una pacchia. Ma non si passa indenni dal grande tutto al grande niente. Iniziai a scricchiolare, ad avere dubbi sul matrimonio con Mariana che senza tennis non avrebbe retto“. L’episodio più grave avvenne a Milano, nel 1989, quando fu trovato incosciente da Loredana Bertè, all’epoca sua compagna. “Mi salvò la vita“, dice oggi con riconoscenza. “Conobbi Loredana Bertè a Ibiza, mi trasferii a Milano, ma per me che lottavo contro droghe e farmaci quella città fu un disastro. Però non è vero che nell’89 il mio fu un tentativo di suicidio. Ero solo sfinito, stanco di vivere in quel modo, era un grido d’aiuto. Ho sempre avuto paura dei conflitti, preferisco fare un passo indietro“. Ma il percorso verso la risalita fu lungo e tortuoso, segnato anche da cadute successive. L’unico appiglio? Ancora una volta, il tennis. Il rientro simbolico nel 1991 al torneo di Monte-Carlo – perso nettamente con Arrese e affrontato con una racchetta di legno – non fu un tentativo di rivincita sportiva, ma un gesto di sopravvivenza. “Non ero lì per vincere, ero lì per tornare a vivere. Il tennis era il mio appiglio, lo scoglio in un mare in tempesta

Borg si descrive come un uomo diviso: metodico e glaciale in campo, impulsivo e vulnerabile fuori. La sua carriera, però, ha lasciato un’eredità tecnica ancora oggi evidente: il rovescio a due mani, l’uso pionieristico del top spin, la preparazione atletica maniacale. Eppure, fuori dal campo, è stato spesso ingenuo, tradito negli affari e travolto da una celebrità per la quale non era pronto. “Oggi i ragazzi mi riconoscono per la mia linea di intimo“, scherza, ammettendo con autoironia di aver venduto i diritti del suo nome per ripagare i debiti. Ma al tempo stesso critica l’eccessiva attenzione del tennis moderno alle statistiche: “Oggi ne siamo travolti. Generano nevrosi e chi gioca a tennis ne ha già abbastanza. Non possono essere la vostra colonna sonora, al massimo un rumore di fondo. A me interessava vincere i tornei importanti e quelli del Grande Slam, non contare i successi consecutivi e i giorni in cima alla classifica. Senza contare che si gioca veramente troppo. La sensazione di aver fatto qualcosa di buono oggi non me la danno i numeri, ma l’essere amico di quelli che erano i miei avversari“.

Oggi vive una vita sobria e regolare a Stoccolma, accanto alla moglie Patricia, e segue ancora con attenzione il circuito. Ammira Jannik Sinner. “Sinner ha già un ottimo team e una famiglia solida. È serio, determinato, feroce, vincerà altri Slam, non vedo pericoli, se non la sfortuna di avere qualche infortunio. Ma avete anche il magnifico rovescio di Musetti, le profondità di Cobolli, il tennis italiano offre tanto“. Borg rivela di apprezzare pure i profili tecnici di Ben Shelton e Jack Draper. “L’americano e l’inglese sono energici e aggressivi“. E sul proprio posto nella storia del tennis mondiale è piuttosto schietto: “Nei primi cinque ci sto“. Ma più dei titoli, a pesare oggi è il senso di gratitudine: per chi lo ha aiutato, per chi gli ha teso una mano, e per il tennis stesso. Che lo ha consacrato giovanissimo, poi dimenticato, e infine – a modo suo – salvato. Già, perché dopo aver conosciuto gli estremi della vita – l’estasi e l’abisso – Bjorn Borg oggi è tornato al centro del campo, non per un trofeo, ma per raccontare che a volte, anche il più grande dei campioni ha bisogno di fermarsi per salvarsi.