L’uguaglianza nel tennis e nello sport: obiettivo concreto, non dogma
È stato uno dei temi più discussi dell’ultimo Roland Garros, affrontato da più prospettive e analizzato da addetti ai lavori e non. La sessione serale dell’edizione 2025 dello Slam parigino è stata al centro di molte polemiche, concentrate sul fatto che in nessuna delle sessioni si è visto un match di tennis femminile. Allargando l’orizzonte temporale all’introduzione della night session, solo 4 incontri su 52 sono stati giocati da donne; l’ultimo risale al 4 giugno 2023, quando si sfidarono per il match di ottavi di finale Aryna Sabalenka e Sloane Stephens.
Perché? La risposta è complessa, ma cercheremo di renderla semplice. Sì, piccolo spoiler: è una questione di soldi, o meglio, di business.
La sessione serale di Parigi prevede un solo incontro, pensato come attrazione principale per gli spettatori in loco e per il pubblico televisivo. Chi compra il biglietto (valore medio attorno ai 180 euro) sa di vedere una sola partita. E allora la scelta diventa commerciale: meglio proporre un match maschile, con una potenziale durata maggiore (al meglio dei cinque set), oppure una sfida femminile, che per regolamento si esaurisce in due su tre? Non è questione di qualità, ma di quantità e durata percepita dello spettacolo, come ha candidamente ammesso anche la direttrice del torneo Amélie Mauresmo: “La scelta è legata al formato. Valuteremo eventuali cambiamenti per il prossimo anno.“
Una delle ipotesi sul tavolo è quella di due match, uno femminile e uno maschile, a partire dalle 19:00, ma significherebbe finire a notte inoltrata, con tutti i problemi logistici e televisivi del caso. In attesa di una soluzione mediana, restano le proteste – legittime – di giocatrici come Coco Gauff, Aryna Sabalenka, Iga Swiatek, Jessica Pegula, Ons Jabeur, ma resta anche il dato economico: il tennis si tiene in piedi grazie al business, e finché il prodotto “match maschile serale” risulterà più vendibile, per quel contesto televisivo, sarà difficile invertire la rotta.
Una visibilità in calo: il tennis femminile oggi
Un’analisi onesta non può ignorare una verità meno comoda, al netto di ogni ipocrisia. Il tennis femminile di oggi, pur contando su atlete straordinarie, fatica a raggiungere l’impatto culturale e mediatico di qualche decennio fa. Un tempo c’erano figure di riferimento forti, capaci di catalizzare l’attenzione mediatica, portare pubblico, generare dibattito: Steffi Graf, Monica Seles, Martina Navratilova, Chris Evert, e poi le sorelle Williams, che hanno riscritto le regole e ridisegnato i confini dell’interesse popolare. Oggi, con Serena ritirata e Venus ormai ai margini, viene spontaneo chiedersi: il tennis femminile ha ancora quel livello di attrattiva e riconoscibilità?
Sia chiaro, non si tratta di mettere in dubbio il talento delle atlete attuali. Nel circuito ci sono giocatrici di altissimo livello, ma forse manca ancora quel salto oltre la linea bianca, quel qualcosa che le renda iconiche anche fuori dal campo. E allora, più che un confronto con il tennis maschile, il tennis femminile dovrebbe guardarsi allo specchio e interrogarsi sul proprio posizionamento attuale: non è (solo) con i colleghi maschi che va fatto il paragone, ma con le precedenti versioni di sé stesso. Il potenziale c’è, ma serve lavorare anche sull’immagine, sulle rivalità, sulla narrazione. Non è questione di paragonarsi agli uomini, ma di riuscire a tornare ai fasti di un passato dove ogni torneo aveva almeno un volto femminile in grado di accendere la fantasia.
In fondo, lo sport vive di storie. E oggi, salvo rare eccezioni, manca quella narrazione di lungo corso che un tempo aveva legittimato lo sport femminile anche agli occhi degli spettatori occasionali. La rivalità Evert-Navratilova fu costruita negli anni, con intelligenza e supporto dei media. Lo stesso accadde per Graf-Seles, o per la parabola di Venus e Serena, che intrecciava talento, famiglia, riscatto sociale e storia americana. Oggi le rivalità sembrano più effimere, i personaggi meno riconoscibili al di fuori del circuito. Eccenzion fatta per Coco Gauff.
Quando c’è una storia forte, il pubblico risponde
Gauff non è solo una campionessa in ascesa. È anche una voce potente per una nuova generazione di atlete consapevoli, che non temono di esporsi. Ha parlato con chiarezza e forza di giustizia razziale, di parità di genere, di diritti civili, diventando un punto di riferimento non solo per le ragazze afroamericane, ma per tutte le giovani che cercano modelli femminili coraggiosi e credibili. Il paragone con le sorelle Williams è inevitabile, e lei lo accetta con rispetto, ma senza timori. Coco non vuole essere una copia, ma un’evoluzione. Ha preso il testimone e lo sta portando oltre, con una comunicazione diretta, moderna, capace di parlare anche ai social e ai media contemporanei senza snaturare la propria autenticità e lo hanno capito anche gli sponsor, come ad esempio Rolex che l’ha individuata come protagonista della sua ultima campagna promozionale. È la naturalezza a vincere, cosa che ad esempio non traspare in Aryna Sabalenka, forse troppo legata al protagonismo da social per risultare vera più che veritiera.
Qualcosa, però, si muove anche in Italia: l’esempio più recente è la storica vittoria di Jasmine Paolini agli Internazionali d’Italia 2025. Una finale emozionante, un torneo che ha catturato il pubblico romano, al punto che sugli spalti del Foro Italico sedeva anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Un segnale non solo simbolico, ma anche concreto: quando il tennis femminile sa proporre storie potenti, qualità tecnica e personaggi coinvolgenti, il pubblico risponde. Non è un problema di genere, ma di racconto.
Il confronto con altri sport
Allargando lo sguardo oltre il tennis, la parità salariale tra uomini e donne appare come un obiettivo ancora molto distante in numerose discipline. Un esempio evidente è quello della NBA e della WNBA. Lo stipendio medio di un giocatore NBA è di circa 9 milioni di dollari l’anno. Per una giocatrice WNBA, si aggira attorno ai 120.000 dollari. Un rapporto di 75 a 1, con picchi ancora più estremi se si considerano le superstar. La motivazione ufficiale è sempre la stessa: la differenza di ricavi.
Tuttavia, la disparità non è solo frutto di mercato. Spesso è anche una conseguenza della minor promozione, degli orari scomodi per le partite femminili, di diritti TV venduti a cifre ridotte, di sponsor poco incentivati. È un circolo vizioso: meno visibilità significa meno introiti, meno introiti significano meno investimenti. E il circolo si perpetua.
Ci sono però delle eccezioni.
Uno su tutti è l’atletica leggera. Regina degli sport olimpici, è riuscita a mantenere nel tempo una sostanziale equità di interesse e valore tra gare maschili e femminili. I 100 metri di Julien Alfred e Sha’Carri Richardson sono attesi quanto quelli di Noah Lyles, le finali del salto in alto o del lungo femminile emozionano tanto quanto quelle maschili. Merito della spettacolarità dello sport, certo, ma anche della capacità di promuovere in modo equo storie e protagonisti. La Diamond League, ad esempio, prevede premi identici per uomini e donne in ogni disciplina.
Altro esempio significativo è quello della pallavolo. In Italia, la differenza tra maschile e femminile è quasi inesistente a livello di attenzione mediatica e popolarità. Anzi, in alcuni periodi la nazionale femminile ha avuto maggiore visibilità e successo rispetto a quella maschile: Paola Egonu, Myriam Sylla, Ekaterina Antropova su tutte. La squadra guidata oggi da Julio Velasco vanta personalità forti e mediaticamente riconoscibili, e soprattutto ha conquistato successi come l’oro olimpico, ancora tabù per i colleghi uomini. La Superlega e la Serie A1 femminile convivono con numeri simili, a testimonianza di un equilibrio raro nel panorama sportivo europeo.
Un paradosso molto interessante è quello del rugby femminile, però strettamente connesso al Sei Nazioni: tanto pubblico sugli spalti, tanti appassionati a casa a vederlo. Il motivo? Diversi: il primo legato ad una nicchia di tifosi del rugby che comunque apprezzano anche la versione femminile e le stese ragazze che sanno giocare questo sport che, a livello di immaginario collettivo, è brutto sporco e cattivo. Roba da uomini si direbbe. Invece in Italia e non solo, è roba anche da donne. Quest’estate in Inghilterra si giocheranno i Mondiali: si preannunciano un successo per tutto il movimento.
Poi c’è il tema calcio femminile che, se a livello globale sembra avere dei segnali che potremmo definire “incoraggianti”, seppure con molto più ritardo: il mondiale femminile 2023 ha attirato più di un miliardo di telespettatori. Alcune federazioni, come quella norvegese e quella australiana, hanno adottato strutture di compenso paritario tra le nazionali maschili e femminili. In Italia la situazione è di sicuro diversa: Sky, che aveva acquistato i diritti del campionato femminile, non ha rinnovato l’offerta e i match sono trasmessi, non tutti ovviamente, su Rai Sport. Anche la nazionale femminile, dopo una prima grande ondata di interesse che sembrava potesse regalare una nuova giovinezza è finita lentamente nel dimenticatoio sportivo. Dicendola piuttosto nettamente: agli italiani il calcio femminile non piace.
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