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Monica Giorgi: la tennista ribelle dalle mille vite e dagli impensabili orizzonti

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Diede ad Adriano Panatta del fascista perché accettò di recarsi nel Cile del boia Pinochet a disputare la finale della Coppa Davis del 1976. Quella delle magliette rosse e di un team azzurro comunque leggendario. L’URSS, poco prima, si rifiutò, l’Italia no e il resto è storia. Non ci pensava su due volte, Monica Giorgi, a esternare un pensiero. Soprattutto se scomodo per le strutture di un potere che, in quegli anni complessi e ancora parzialmente oscuri, dovette far conto con la stagione delle stragi e degli omicidi politici. Un’attitudine ribelle, la sua, che le costò financo la galera.

Partecipazione a banda armata e associazione sovversiva, scrissero sui documenti che sempre accompagnano le manette; etichetta che Monica si tiene stretta, altro che scomoda, perché, come ha avuto modo di raccontare di recente, in quel periodo il suo desiderio era quello di sovvertire il potere. È l’equazione, che poi sarebbe disequazione ma tant’è, anarchia uguale delinquenza a far sì che le forze dell’ordine con le armi in pugno nella primavera del 1980 fecero irruzione in casa in cerca di chissà quali prove, finendo solo per rovistare tra pericolosissimi libri di storia e filosofia. Studiosa, è anche la passione per la filosofia ad accrescere in lei il desiderio di giustizia sociale. Al pari degli scritti degli anarchici o di Martin Luther King.

Arrestata alle porte di Milano, a Cinisello Balsamo dove al tempo insegnava tennis, Monica è però originaria di Livorno, una donna di mare, dove tutti conoscevano la sua intensa attività di propaganda politica. Monica, l’agitatrice culturale spacciata per terrorista, un classico. Oggi, Monica vive dalle parti di Bellinzona, dove riparò a seguito delle noie giudiziarie sposando un cittadino svizzero, ma l’Italia resta la sua carne. Livorno, il mare, gli odori inconfondibili che impregnano le nostre strade, i muri che sempre raccontano chi siamo. Oggi come allora. Allora, però, non era solo alla legge che fu invisa. Perché, in quella società ancora troppo bacchettona e poco sensibile alle storture annidate al suo interno, anche la Federazione,  la sua, quella del tennis, trovò il pretesto per darle contro. Troppo scomoda, le dissero fosse indegna a rappresentare la nazione. Perché in pieno apartheid Monica si presentò agli occhi del mondo indossando proprio a Johannesburg una maglietta con impressa un’immagine richiamante, senza troppe ambiguità, il sesso tra un uomo nero e una donna bianca. Figuriamoci. A valle del malcontento generato da quella visione su spalti appannaggio di soli bianchi o quasi, l’establishment del tennis nazionale si prese la briga di fermarla per un anno, perché certi argomenti è sempre opportuno finiscano sotto il tappeto.

Tennista, quindi. La compianta Lea Pericoli, sua carissima amica, era solita chiamarla ‘Monicaccia’ ma probabilmente le due donne furono personalità più simili di quanto tutti abbiano sempre pensato. A cavallo di quel ‘68 che a Monica tracciò la via, al punto che, per esempio, l’omicidio del ferroviere anarchico Pinelli, volato dalla finestra della Questura di Milano, assurse spesso a leitmotiv nei suoi racconti. “Il mio Sessantotto”, dice a riguardo. A proposito di tennis, con lo sport che, della vita, diventa talvolta un efficace paradigma. A Monica, tennista vera (un ottavo di finale a Parigi, tanto per citare un traguardo sportivo) e grande interprete della disciplina del doppio, una volta capitò di lasciare vincere senza combattere l’amica Lea. Anno 1971, Assoluti. Non si trattò di avvantaggiare un’avversaria, fu la deliberata volontà di destabilizzare un sistema, ideali come colla sulla pelle. L’anarchica, quella non inquadrabile entro schemi convenzionali, che solidarizza con i prigionieri politici e che rigetta il compromesso, che ad un passo dal traguardo molla tutto e se ne va per lanciare un segnale. Piccolo ma necessario, come tutti i passi che inaugurano un percorso. Sempre a proposito di parallelismi, fu giocatrice dal tennis leggero e vario, arioso. Disturbante perché imprevedibile, disinnescabile dalle rivali ma solo con l’uso della forza. Esattamente come le accadeva lontana dai ground. Repressione bruta contro ideali di libertà. Forti contro deboli.

Il mare, un sodalizio cromosomico. Non a caso ha scelto come titolo per il suo recentissimo libro “Domani si va al mare”, scritto con la collaborazione della giornalista Serena Marchi ed edito da Fandango. È Monica Giorgi che, all’alba delle ottanta primavere, si racconta. Il titolo riporta indietro le lancette del tempo a quello che, per la stessa ammissione della protagonista, è il giorno più bello della sua vita. Quello della riduzione di pena, a seguito della revisione del processo, a due anni di reclusione già scontati. “Si va al mare!”, esclamò uscendo dal carcere, con la teatralità che l’ha sempre accompagnata nelle esternazioni. Pagine, quelle del libro, che suonano nel 2025 come il manifesto di una donna che ha fatto una precisa scelta di campo, si è posizionata dal lato che ha ritenuto corretto della barricata accettando, senza arretrare di un passo, le conseguenze delle sue azioni.

In definitiva, in un mondo fatto di uomini e donne in vendita al miglior offerente, quella di Monica Giorgi, la Pasionaria del tennis, è una storia affascinante da ricordare e, pertanto, la lettura di “Domani si va al mare” è un ottimo modo per farlo. “Preferiamo essere vedove di eroi che mogli di vigliacchi”, disse una volta Dolores Ibàrruri, influente personalità del Novecento. Siamo convinti che Monica, la tennista che ha sognato una società giusta, del principio dell’attivista spagnola ne abbia fatto con coerenza stella polare. Fuori dalla massa consenziente, incondizionatamente per la non violenza, granello di sabbia. Quello che inceppa i meccanismi iniqui di un mondo che persevera nel non essere il migliore possibile.

Chiara Gheza e Matteo Parini