Una croce e un Tricolore: Basovizza è un monito contro i sentimenti anti-italiani
Basovizza è un tuffo al cuore. Le colline sopra Trieste, fra boschi e cartelli in Italiano e Sloveno, si attorcigliano fino a diventare sentieri, raccontando storie di sangue, di tragedie familiari, di radici recise e di odiose bugie. Il bosco che si apre lascia spazio a una distesa di ghiaia, sormontata da una base di legno, sulla quale si stagliano al cielo, sopra un parallelepipedo di pietra, una croce e un Tricolore.
Eccola, Basovizza, la foiba triestina.
Alla vigilia di questo Giorno del Ricordo 2025 è stata sfregiata con scritte rosso sangue, in Italiano e in Sloveno, in odio alla memoria condivisa, alla “storiella” della riconciliazione, alla necessità di chiudere una delle pagine più vergognose del dopoguerra. «Un affronto all’intera Nazione», lo ha definito la premier Giorgia Meloni. Eppure non stupisce affatto che accadano fatti come questi.
La storia del 10 febbraio e di una giornata del Ricordo per i martiri delle foibe è costellata dalle medesime ipocrisie che per decenni l’hanno relegata ad avvenimento minore, ad accidente del destino, a mera conseguenza di altri fatti storici più gravi, come se esistesse una gerarchia dello sterminio di massa e una legge morale superiore a determinarla. Non stupisce che si possa passare un segno con lo spray sulla memoria, perché da qualche tempo una parte di quella sinistra responsabile dell’oblio sui fatti del confine orientale ha ricominciato, con la complicità interessata dell’Anpi, a voler riscrivere anche quella storia, non potendola più sottacere.
Gli eredi di quelli che si schierarono con i massacratori partigiani, agli ordini del Maresciallo Tito, quelli che tacevano persino su Porzus e sui morti della brigata partigiana Osoppo per mano slava, oggi organizzano convegni nei piccoli e nei grandi centri, per spiegarci le foibe, da cosa nascano, di chi sia la colpa, quanto queste siano storicamente insignificanti rispetto alle responsabilità degli “Italiani”. Una realtà distopica e bipolare.
Un po’ come se il boia, mentre le teste rotolano, pretendesse di assumere la difesa dei condannati a morte. È il sentimento “anti-italiano” di questa sinistra, radicato e cementato da anni di bugie in nome dell’ideologia; lo stesso sentimento che alla stazione di Bologna, in pieno esodo dalle terre istriane, fiumane e dalmate, portava i sindacati a organizzare i propri adepti per impedire agli Italiani “maledetti” di scendere dai treni. Donne, bambini, insegnanti, preti, una intera popolazione sradicata dalle proprie terre e rispedita verso un’Italia che li accoglieva con gli sputi e le bandiere rosse, tacciandoli di essere “fascisti” e quindi non meritevoli di avere una casa.
Sembra già lontanissimo, a leggere oggi distinguo e prese di posizione, il discorso di Luciano Violante a Trieste, allo stesso tavolo di Gianfranco Fini, quando recitava il “mea culpa” sulle responsabilità della sinistra rispetto al mancato racconto di quei fatti e all’oblio sui morti; sembrano preistoria i Presidenti della Repubblica che si inginocchiano a Basovizza nel tentativo di riconnettere i fili della memoria: c’è sempre qualcuno che odia l’Italia e il sentimento nazionale a tal punto da mettere terra negli ingranaggi della riconciliazione, perché su questa anti-Italianità ha costruito e costruisce la propria ragione d’essere. Ieri con Tito, oggi con gli affaristi dell’ex blocco franco-tedesco che a Bruxelles si schierano contro l’Italia o con gli scafisti che trafficano in uomini e donne nel Mediterraneo: è la stessa linea, rossa, di vergogna.
Nel frattempo qualche ragazzetto brufoloso trova il coraggio, grazie a questa rinnovata ondata negazionista, di vergare con lo spray il proprio dissenso rispetto al legittimo desiderio degli Italiani, quelli veri, di seppellire i morti senza nome finiti nelle cavità carsiche, di dare un nome ai dimenticati le cui masserizie vengono custodite nel Magazzino 18 di Trieste, di raccontare ai più giovani che il dopoguerra fu anche una storia di vendette, di massacri, di nefandezze contro gli Italiani, in quanto tali, e non contro il fascismo morente o morto e sepolto. Il cielo su Basovizza è ancora più grigio, oggi, l’aria pesante come non mai, nonostante il 10 febbraio, nonostante la legge sul Giorno del Ricordo. Resta solo un Tricolore, in una terra sfregiata, a ricordarci che non basta essere Italiani per amare l’Italia.
L'articolo Una croce e un Tricolore: Basovizza è un monito contro i sentimenti anti-italiani sembra essere il primo su Secolo d'Italia.