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Il ritorno di un governo forte non piace al “partito dei magistrati”: la reazione scomposta delle toghe lo prova

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C’è una ragione molto più profonda dietro la reazione scomposta della magistratura nei confronti del governo. C’entrano poco Berlusconi, Palamara, il processo a Salvini e ora l’avviso di garanzia alla Meloni e ad altri autorevoli membri del governo. Questi sono solo alcuni effetti del problema. Affrontare serenamente questo problema non è facile, e comporta seri rischi. Ma non farlo significa abdicare alla propria libertà e al proprio diritto di cittadinanza in una repubblica libera. Si chiama “potere”, e non è quello formale previsto dalla classica tripartizione introdotta dai giuristi moderni, di cui tanto si discute in questi giorni, ma è quello occulto del “partito dei magistrati”, più che della magistratura. Un potere esercitato in maniera assoluta per la debolezza grave dello Stato sovrano.

In Italia, infatti, al potere sovrano dello Stato si è sostituito il “potere occulto” dei giudici, come lo chiama qualche coraggioso studioso: un potere che si afferma nella fitta trama di compromessi tra interessi particolari che impediscono la formazione di un vero senso dello Stato come senso di superiorità dell’interesse generale. Il partito dei magistrati, per la complicità di un ceto politico compiacente o arrendevole, ha sin qui fatto credere ai cittadini (i quali per questo non si indignano) che il potere di tutela dei diritti spetti alla magistratura. Ma così non è, o non dovrebbe essere, perché si tratta di un potere dello Stato sovrano, non dei giudici. E noi non possiamo dire di essere liberi in uno Stato in cui il potere non è bilanciato perché sconfina verso il potere giurisdizionale.

Il partito dei magistrati “governa nell’ombra”: ecco come

Si fa credere che sia il parlamento a “fare” le leggi. In realtà, il legislatore, cui pure spetta il potere formale di emanarle, non fa che enunciare dei testi la cui interpretazione è poi determinata dalla giurisdizione. I magistrati, di fatto, esercitano quella che gli esperti chiamano la “funzione nomotetica”, che non spetta formalmente a loro. Applicando la norma, essi effettivamente “creano” il diritto. Succede allora che mentre i partiti normali governano con responsabilità, se non altro nei riguardi degli elettori che se sbagliano li mandano a casa, il partito dei magistrati governa nell’ombra: crea sentenze interpretative sulla base di leggi volutamente nebulose; scritte quasi sempre da magistrati che dirigono e compongono gli uffici ministeriali preposti; “riscrive” le leggi attraverso le sentenze; garantisce una “certezza del diritto” in realtà viziata da un originario quanto insuperabile formalismo.

Mentre altre nazioni civilizzate, come ad esempio la Francia o gli Stati Uniti, si reggono sulla dialettica proficua tra politica e magistratura, in Italia questa non esiste: per l’atavica debolezza del potere politico e lo sconfinamento della sovranità nella funzione giurisdizionale. Non sono forse i giudici ad avere sempre l’ultima parola su tutte le questioni di tutti gli ambiti della vita civile? È così che sono andate le cose finora.

L’avvento dell’attuale governo targato Giorgia Meloni, un governo finalmente legittimato dal consenso popolare e sorretto da una stabile maggioranza parlamentare, ha ridato forza istituzionale allo Stato sovrano e autonomia alle scelte che spettano alla politica. La Meloni, che per storia politica sua e del suo partito sfugge a certe pratiche di mediazione occulta– e per questo lei stessa dice di non essere “ricattabile” – ha capito che, per essere sovrano, lo Stato deve prima di tutto essere “forte”, garantendo i diritti e indebolendo in tal modo il ricorso forzato dei cittadini al potere della magistratura. Il partito dei magistrati, dal canto suo, teme di perdere la sua sovranità effettiva. Da qui la reazione scomposta, che diventa anche surreale quando è affidata a estetismi ideologici o presunte “resistenze” che davvero lasciano il tempo che trovano.

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