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«An fu una scommessa sul futuro. La vittoria? La predisse persino una maga». Parla La Russa

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A trent’anni da quel 27 gennaio del 1995 – «L’alba di Alleanza Nazionale», come titolò il Secolo d’Italia – la lezione per Ignazio La Russa resta attualissima: «Non bisogna avere paura delle scelte che possono sembrare pericolose o di rottura. Le scelte dolorose, quando sono sentite, giuste e nel solco di una visione del mondo, vanno sempre fatte». Per il presidente del Senato ed esponente di rilievo del partito della “fiamma” in tutte le sue evoluzioni – dal Movimento Sociale Italiano a Fratelli d’Italia – proprio tali scelte hanno fatto di Alleanza Nazionale una stazione e una stagione fondamentali per l’affermazione di quella di destra di governo che arriverà, passo dopo passo, a guidare l’Italia con Giorgia Meloni. «Oggi sembra quasi normale avere fatto Alleanza Nazionale», spiega in questa lunga intervista, ma se si guarda la storia del Msi «si capisce che fu un salto triplo, esattamente come lo è stato la nascita di Fratelli d’Italia». Un salto oltre la siepe ispirato dalle intuizioni dei grandi – un nome su tutti, Pinuccio Tatarella – e il cui destino, ricorda proprio La Russa, fu indicato persino dalle carte «di una maga», impresso proprio su una prima pagina del Secolo: «Vittoria. Il partito della Nazione».

Trent’anni fa a Fiuggi, fra lacrime sincere e grandi speranze, si chiudeva una lunga storia. E se ne apriva subito un’altra: senza la quale…

«Non saremmo qui oggi, naturalmente. Devo dire che anche la storia che si aprì trent’anni fa a sua volta nasceva da altri momenti topici della vita della destra e della politica italiana. Il primo è la nascita del Msi: non era scontato per niente che all’indomani della fine della guerra ci fossero degli uomini disposti a dire “non rinnegare, non restaurare”. E cominciassero così, nell’agone politico e democratico, a tenere una posizione fondamentale: fare della destra un partito democratico, una destra con la volontà di avere un ruolo importante nella vita politica italiana. Proprio ciò che ha portato, poi, alla possibilità di far nascere Alleanza Nazionale. E che ha dato vita a tutto ciò che è successo dopo. Ogni tappa è collegata ma trent’anni fa, certamente, il passaggio fu epocale».

C’è un ricordo personale di quella stagione di cui non ha mai parlato?

«Ce ne sono tanti. Le racconto un fatto che ha accompagnato la svolta di Fiuggi: la prima occasione in cui, portati da Pinuccio Tatarella, con Maurizio Gasparri, Ugo Martinat e Luciano Laffranco andammo da Gianfranco Fini a prospettare la necessità di fare questo salto. Lui fu molto prudente: disse che avevamo pienamente ragione ma fu cauto, nel suo ufficio in via della Scrofa. “Andate avanti voi – questo il suo ragionamento – perché devo tenere l’equilibrio in un partito che oggi non è tutto pronto a un passaggio come questo”. Tuttavia solo sette giorni dopo incaricò Francesco Storace di comporre un celebre articolo. Indovini dove?»

Sul Secolo d’Italia.

«Esatto. Un articolo che diede il via a tutto. Quindi se in un primo momento fu molto prudente, rimuginò evidentemente in quei giorni e decise in maniera determinante di dare un segnale a tutto il partito che quello poteva e doveva essere il percorso».

Lo ha citato poc’anzi: l’ingegnere “politico” di Alleanza Nazionale fu Pinuccio Tatarella. Aveva compreso la modernità della destra come elemento vivificante per la Nazione. Un messaggio che scavalcava il ‘900 in alto, non solo in avanti.

«Analisi che faccio totalmente mia. Aggiungo solo una cosa: Pinuccio ci arrivò molto prima di quando manifestò questa posizione dentro il Msi. Il fatto che i suoi punti di riferimento culturale fossero Papini e i grandi del pensiero italiano, così diversi da quelli dei giovani missini che si dividevano fra Evola, Gentile e qualcuno Guenon, tracciò una rotta sulla quale, poi, la nuova destra politica ha imparato a navigare. Il grande lavoro di Pinuccio fu proprio aver trovato in alcuni giovani – non in tutti, perché non dimentichiamo che allora il mondo giovanile si divise in due – la sponda. Fra questi io e Gasparri che ancora eravamo “abbastanza” giovani. E trovò in Fini la persona su cui far convergere queste aspettative e trasformarle in un fatto concreto. Quindi Tatarella, Fini e i giovani furono coloro che diedero la sterzata decisiva al Msi. Non va dimenticato, però, che senza Almirante non ci sarebbe stato Fini probabilmente. E quindi la scelta di Almirante di volere un successore nato dopo la fine della guerra fu lungimirante ed è prodromica a quello che successe poi con la nascita di An».

An ha avuto un solo leader nella sua parabola: Gianfranco Fini appunto. Un «caposaldo» – nonostante le vostre strade si siano divise politicamente – come lei recentemente lei ha riconosciuto.

«Non ho mai interrotto del tutto i rapporti con Gianfranco: sono sempre rimasti cordiali. Proprio perché tendo a valutare, oltre al dato umano e personale, il complesso del suo ruolo nella politica della destra. Se è vero che non ho apprezzato, altrimenti lo avrei seguito, la sua scelta di uscire dal Pdl ho sempre considerato importante, accanto agli errori dell’ultima fase, la funzione decisiva che ha avuto nel traghettare il Msi in An. Senza Tatarella non ce l’avrebbe fatta ma Tatarella senza Fini non avrebbe potuto cambiare il partito».

All’affermazione di An contribuì l’alleanza con Forza Italia. La vulgata lo chiamò “sdoganamento” da parte di Silvio Berlusconi. Un termine orrendo e a mio avviso falso: la destra si è sdoganata da sola nel ‘93. Resta, però, la grande intuizione del centrodestra: più forte che mai.

«Ci fu qualcosa che ci sdoganò: l’onestà dei nostri padri. Non avere nessun contraccolpo in Mani pulite, fu quello che ci sdoganò. Fu la pulizia morale degli uomini del Msi che mostrarono a tutti, anche a Berlusconi quando decise di allearsi con noi, che eravamo di un’altra pasta rispetto a quello che in quel momento appariva il panorama politico. Poi tecnicamente ci sdoganarono gli italiani, con il voto di Roma e di Napoli su Fini e su Alessandra Mussolini. Per non contare dei voti al Sud che arrivarono in proporzioni strabilianti. Di Berlusconi bisogna riconoscere che ebbe il merito di capire che questo sdoganamento era già avvenuto: è un grande merito, in un’Italia un po’ bigotta, un po’ incapace di innovazione. Lui lo capì subito, addirittura quando il boom di Fini a Roma c’era stato ma solo al primo turno, con la celebre dichiarazione “di voto” mentre inaugurava un supermercato».

Ancora oggi i critici, o meglio i detrattori, spiegano che nonostante “la svolta di Fiuggi” – incluse le sue tesi sul riconoscimento del ruolo dell’antifascismo alla fine della Seconda guerra mondiale – quella fantomatica destra europea non sia ancora nata…

«Anche i cosiddetti critici rispondono ad esigenze strumentali. Perché a volte dicono quello che ha sottolineato lei, a volte invece dicono “sono tornati indietro. Lì sì (al congresso di Fiuggi, ndr) che c’era stata la svolta. Poi l’hanno dimenticata”. Insomma, recitano entrambe le versioni. In realtà il percorso è stato chiaro e senza ritorno. Credo allora che tanti che scrivono sulla destra in realtà non abbiano mai letto le tesi di Fiuggi. Farebbero bene a studiarle, soprattutto nella parte sul rapporto fra la destra e la Resistenza. Si leggano la divisione profonda nel nostro giudizio tra partigiani bianchi e partigiani che volevano una dittatura addirittura peggiore del fascismo. Anche verso quest’ultimi, però, riconosco in molti di loro il desiderio di una società migliore».

Parla dei partigiani rossi?

«Così come sarebbe bello se tutti riconoscessero in molti combattenti della Rsi il desiderio di difendere a loro modo l’onore d’Italia, non ho difficoltà a riconoscere che fra i partigiani rossi ci fossero persone che volevano decisamente la libertà e che la dittatura del proletariato configurasse per loro un’Italia migliore. Non era così, ovviamente, ma noi questo lo diciamo in termini chiari nelle tesi di Fiuggi insieme a tutto il resto. Per questo credo che rileggere oggi quelle tesi sarebbe forse utile anche a destra ma sicuramente a sinistra».

Alla fine l’unica parentesi della storia – parafrasando Croce – resta solo il Popolo della libertà. Col senno del poi fu una pausa tecnica. Ha temuto, durante e dopo l’implosione, che la vostra storia potesse finire?

«No. Ho sempre sperato che il percorso iniziato con il Msi, proseguito con An e poi approdato al Pdl – al di là della presenza decisiva e importante di Berlusconi – nel tempo potesse tramutarsi in quello che è oggi Fratelli d’Italia. Non è stato così per mille motivi ma non lo considero un passo indietro. Certo, quando è stato chiaro che non poteva essere così, anche perché se n’era andato Fini e Berlusconi non voleva un Pdl diverso da come io lo pensavo ma voleva tornare a Forza Italia, ci rendemmo conto che non eravamo i soli a vedere che quel percorso non funzionava. A quel punto ci siamo decisi, io il più vecchio, a dire “si esce dal Pdl” e a quaranta giorni dalle Politiche – insieme a Giorgia e a Crosetto – far partire un’avventura che solo gente di destra può immaginare: tanto pareva disperata. Ma noi ce l’abbiamo nel nostro Dna: andare dove ti porta il sentimento prima ancora che la ragione».

La fiamma non si è spenta. Con le sue evoluzioni, le doverose rivisitazioni, le crisi e le traversate è arrivata quasi al 30%.  Di fatto quel partito della Nazione pensato da Tatarella è giunto a piena maturazione con la generazione successiva: quella di Fratelli d’Italia. E con un leader ancora una volta giovane ma questa volta donna.

«Leader giovane e donna, su cui personalmente ho sempre creduto ma non perché fosse tale ma perché era ed è Giorgia. Quanto al partito della Nazione: le racconto la storia di Laffranco, scomparso purtroppo poco prima della nascita di An. Lui, come molti italiani, rafforzava i suoi convincimenti andando da una maga a Perugia. A un certo punto venne, eravamo un anno e mezzo prima delle elezioni del ‘94, e ci disse che la maga gli aveva letto un titolo del Secolo d’Italia in cui c’era scritto a tutta pagina: “Vittoria. Il partito della Nazione”. Non ho mai capito se questa cosa che lui ha ripetuto molte volte, questa previsione che avremmo vinto, abbia poi ispirato chi ha fatto il titolo: fatto sta che a noi venne un brivido quando leggemmo quel titolo sul Secolo all’indomani della vittoria del ‘94. Insomma, l’idea che fossimo il partito della Nazione nasceva quasi in contemporanea con la nascita di An. Era l’obiettivo di An».

Sogno che poi si è più che realizzato: con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi.

«È così. Significa che tutti quegli avvenimenti, a partire dall’immediato dopoguerra a oggi, sono concatenati; e sono momenti, a volte dolorosi, a volte drammatici, ma sempre figli di una volontà: quella di essere il partito degli italiani. Questo c’è nei dieci punti del Msi, nelle tesi di Fiuggi, nel motivo per cui andammo a fare il Pdl, nella nascita di Fratelli d’Italia: la costante comune è quella di voler interpretare il sentimento degli italiani e l’amore per la Nazione».

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