Separazione delle carriere? Non è il sogno di Berlusconi né l’incubo di Davigo: è un fatto di giustizia giusta
E così, durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, ieri mattina si è consumata l’attesissima pantomima dell’Associazione Nazionale Magistrati i cui esponenti, Costituzione sotto il braccio, hanno abbandonato l’aula prima dell’intervento del delegato del Ministro della Giustizia Carlo Nordio. Un atto di protesta a lungo annunciato contro una riforma che secondo l’ANM, dettasi profondamente preoccupata, “mette a rischio l’autonomia e l’indipendenza della magistratura…non migliora sotto alcun punto di vista il servizio giustizia ma agisce solamente sulla magistratura e toglie garanzie a tutti i cittadini italiani.”
Insomma, a detta dell’associazione presieduta da Giuseppe Santalucia (tra i suoi predecessori più noti ricordiamo Luca Palamara e Piercamillo Davigo), la riforma stravolgerebbe la Costituzione e per difenderla i magistrati evocano persino Calamandrei: “In questa Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato” ebbe a dire il sommo giurista e per questo, ad avviso del “sindacato” delle toghe, la Legge fondamentale sarebbe intangibile.
Separazione? Lo dice la Costituzione
Al netto del fatto che è la stessa Costituzione a prevedere il procedimento per la propria revisione – i Costituenti, saggiamente, l’avevano prevista rigida ma non immutabile – i magistrati in protesta trascurano un dato essenziale: è la stessa Costituzione che ieri hanno brandito contro il Ministro Nordio a prevedere la separazione delle carriere allorquando sancisce, all’art. 111, che il giusto processo è tale se il giudice è terzo e imparziale innanzi alle parti – accusa e difesa – in condizioni di parità tra loro.
Siamo certi che dalle parti dell’ANM tutti conoscano molto bene questo principio, ma nell’epoca del trionfo del relativismo è normale che la Costituzione sia sacra solo nelle parti in cui piace a loro e possa essere ignorata in tutte le altre. Ma per meglio comprendere perché la separazione delle carriere sia necessaria affinché il processo possa dirsi giusto, occorre fare un passo indietro. Chiunque abbia qualche capello bianco o si sia imbattuto in vecchi filmati avrà potuto notare come, fino al 1988, al fianco dello scranno del giudice, solo soletto sedesse il PM, allora giudice istruttore: si trattava di una figura con poteri assai diversi e più ampi di quelli dell’odierno pubblico ministero, nel modello del rito inquisitorio.
Quel sorriso di Falcone…
Con la riforma del codice di procedura penale del 1988 e il passaggio dal rito inquisitorio a quello accusatorio, il pubblico ministero diventa parte processuale, esattamente come la difesa e a dimostrazione di ciò, la sua posizione nelle aule di giustizia cambia: non più da solo accanto al giudice ma di fronte ad esso, nella stessa posizione del difensore. Un cambiamento simbolico che avrebbe dovuto enfatizzare la condizione di parità tra le parti e che fece sorridere lo stesso Giovanni Falcone che, nel preconizzare la necessità di giungere prima o poi alla separazione delle carriere, si disse scettico sul fatto che molti suoi colleghi avrebbero accettato di buon grado un simile “declassamento”.
Ed è proprio nel 1988, a fronte di questa rivoluzione dei ruoli e dei poteri di giudici e pubblici ministeri che si comincia a parlare di separazione delle carriere: se il PM è parte del processo come la difesa, come può essere compatibile questo suo ruolo con l’appartenenza allo stesso ordine del giudice? Come può il giudice essere terzo se una delle parti non è veramente tale ma appartiene alla sua stessa “famiglia”? Come è evidente, quello sulla separazione delle carriere non è un dibattito recente né si tratta di mera speculazione o di battaglia politica: non è il sogno di Berlusconi o di Nordio né l’incubo di Davigo o Santalucia. È un tema che investe la stessa natura della giustizia, che può essere giusta solo se dotata del crisma dell’imparzialità.
Nel nome dell’imparzialità
E non c’è imparzialità se chi giudica e chi accusa sono colleghi, appartengono allo stesso ordine, accedono attraverso lo stesso concorso, possono scambiarsi i ruoli, sono sottoposti allo stesso organo di autogoverno e di autodisciplina. Non c’è imparzialità se giudici e PM si votano a vicenda per eleggere i componenti del CSM, se decidono delle promozioni e delle sanzioni gli uni degli altri, se, banalmente, i loro uffici sono a pochi metri di distanza, mentre il difensore, quasi un corpo estraneo della giustizia, assiste a tutto questo da lontano e può solo sperare di incontrare un giudice che non sia condizionato né condizionabile.
A fronte di tutto questo, quindi, appare ancora più incomprensibile l’opposizione di ANM – casualmente in perfetta sintonia con il Partito Democratico – contro una riforma dettata dalla stessa Costituzione, promossa dall’avvocatura e voluta dai cittadini (secondo un sondaggio di SWG il 63% degli italiani la ritiene “importante”) a meno di non voler pensar male – si fa peccato, ma spesso ci si indovina – e concludere che della difesa la democrazia non sia propriamente la priorità dei magistrati in rivolta e che lo scopo vero di tanta livorosa opposizione alla riforma sia la salvaguardia di se stessi e dei privilegi che la posizione gli garantisce da decenni. Perché quello che la riforma andrebbe a intaccare è quel sistema descritto da Palamara, in cui le correnti interne alla magistratura – che teme le ingerenze politiche ma poi si associa e si divide sulla base dell’appartenenza politica (sic!) – fanno il bello e il cattivo tempo con buona pace delle regole.
Sarebbe il caso di ricordare agli autoproclamati paladini della democrazia che la Costituzione non è cosa loro ma è di tutti e che fare le leggi – anche quelle sulla magistratura – è prerogativa del Parlamento, espressione del Popolo. Quel Popolo nel cui nome i magistrati sono chiamati ad amministrare la giustizia. Amministrare, non dominare.
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