“The Pitt” piace a tutti, anche ai medici di Pronto Soccorso: ecco perché
Gli occhi di Noah Wyle sono sempre gli stessi, anche se sono passati 30 anni dalla prima puntata di ER – serie cult degli anni Novanta, primo vero medical drama della storia – dove interpretava il giovanissimo dottor Carter, specializzando di Pronto Soccorso, costantemente maltrattato da tutti i suoi superiori. Ora, nella serie The Pitt – ambientata in un reparto di emergenza di un grande ospedale di Pittsburgh – l’attore americano veste i panni del primario Michael “Dr. Robby” Robinavitch: alle prese con tutte le difficoltà dei Pronto Soccorso americani, sorprendentemente simili a quelle di casa nostra. Creata dallo showrunner R. Scott Gemmill e prodotta da John Wells insieme allo stesso Noah Wyle, la serie racconta un turno di quindici ore all’interno del Pittsburgh Trauma Medical Center. Ogni episodio corrisponde a un’ora di quel turno, e costruisce un arco narrativo estremamente serrato e carico di tensione, che intreccia sapientemente casi clinici, vite personali e conflitti morali. Accolta con entusiasmo da critica e pubblico, The Pitt ha subito vinto 5 Emmy Awards (i premi più importanti della tv americana): miglior serie drammatica, miglior attore protagonista a Noah Wyle, miglior attrice non protagonista a Katherine LaNasa, miglior casting e miglior attore guest a Shawn Hatosy. A queste si è aggiunto il Gotham TV Award come miglior serie drammatica rivelazione, a conferma della forza del progetto, subito diventato un cult sia tra i medici che tra gli appassionati di serie tv ospedaliere: è già stata rinnovata per una seconda stagione, attesa nel gennaio 2026. Il team degli sceneggiatori guidato da Joe Sachs, anch’egli ex membro della squadra di ER (e a sua volta medico di Pronto Soccorso), è stato affiancato da un nutrito gruppo di consulenti medici che hanno preventivamente stilato note e immaginato coreografie (come muoversi attorno a un traumatizzato, come agire in caso di rianimazione, etc) a garanzia della correttezza dei casi e delle procedure cliniche. I consulenti, inoltre, sono stati sempre presenti anche sul set, pronti ad affiancare gli attori durante le procedure più complesse: mentre alcune delle comparse sono davvero infermieri nella vita reale.
Cosa ne pensano i veri medici dell’emergenza
Tutto questo lavoro di precisione medico-scientifica ha colpito nel segno, perché non c’è professionista di (vero) reparto di emergenza e urgenza che non stia vedendo The Pitt, non ne parli, non si confronti con i colleghi e non consigli ai propri team di vederlo per poi magari discuterne assieme. Con tante diverse motivazioni, ma anche qualche critica.
«Nei nostri Pronto Soccorso facciamo esattamente le stesse cose viste in The Pitt, ma noi non sembriamo mai così fighi» scherza, ma non troppo, Fabio De Iaco ex presidente di SIMEU (Società Italiana Medicina di Emergenza Urgenza) e primario di Pronto Soccorso a Torino. «Ma battute a parte, l’ho trovato ben fatto e realistico, con qualche distinguo: per esempio, viene totalmente ignorata la parte burocratica del nostro lavoro. Il primario non si ferma mai, gira per le postazioni, elargisce buoni consigli, fa procedure, assiste i più giovani. Poco realistico, credo anche per gli USA, dove però in molti PS hanno da tempo introdotto la figura dello scriba che si occupa di trascrivere tutto e di gestire i passaggi burocratici. Nella nostra realtà è tutto diverso: ci sono studi che dicono che per ogni minuto passato a contatto con il paziente ne passiamo almeno cinque sul computer».
Il primo limite della serie è quindi proprio questo: un ritmo d’azione che non si ritrova facilmente nei veri reparti, e del resto sarebbe stato decisamente impossibile spezzare l’adrenalina delle puntate mostrando i medici alle prese con il lavoro di inserimento dati, senza rallentare eccessivamente la narrazione televisiva. Anche se non si esclude che nelle 13 puntate rimanenti vengano mostrati anche i guai informatici che tanto impattano sulle corsie dei nostri veri ospedali. Per il resto, a sentire i medici, le difficoltà sono abbastanza ben rappresentate. «A parte certe scene cruente che tendono esclusivamente alla spettacolarizzazione, apprezzo soprattutto il fatto che gli sceneggiatori abbiano puntato su quelli che sono alcuni tra i veri drammi dei Pronto Soccorso» dice il dottor Giuseppe Carpinteri, primario del Pronto Soccorso dei Policlinico G. Rodolico di Catania, che ha più o meno l’età di Dr. Robby e quel certo disincanto che proviene da più di 30 anni trascorsi in Pronto Soccorso. «Cioè innanzitutto la “dissociazione” tra risorse disponibili, tempo e numero di pazienti, e le difficoltà ma anche i punti di forza del lavoro in team. Personalmente poi sono stato molto colpito dal fatto di voler affrontare -proprio nella prima puntata- anche lo scottante tema del “fine vita” in Pronto Soccorso. Dei tanti anziani che arrivano nei reparti di emergenza solo per morire, senza spazi adeguati e spesso senza il conforto dei familiari. E’ un problema che in Italia sentiamo tantissimo, al quale non riusciamo a dare risposte adeguate per problemi di “sistema sanitario” e ospedaliero, al di là della nostra buona volontà personale».
Le difficoltà del sistema e la forza del gruppo
Il primario catanese, come molti altri, ha voluto coinvolgere nella visione anche tutto il suo team, soprattutto i più giovani. «Ho immediatamente pensato, guardando le prime puntate, che “Sembriamo davvero noi!”. E ho continuato a pensarlo praticamente per tutta la loro durata, un caso clinico dopo l’altro, una storia dopo l’altra» spiega Francesca Cucuzza, giovane strutturata del suo stesso reparto. «Guardare questa serie, per un urgentista, è doloroso e catartico insieme. Doloroso perché, a differenza della maggior parte dei medical drama fatti di diagnosi geniali e improbabili, mostra come uno schiaffo in pieno volto la reale e costante oscillazione di questa categoria di medici, tra esaltanti successi e devastanti perdite, senza quasi tempo di recupero fra gli uni e le altre. Ma è anche catartico, perché rivedendoti in quelle dinamiche e nella gestione di quei pazienti non ti senti più solo». Il Pronto Soccorso, in televisione come nella vita, resta dunque un luogo che racconta la società. «Per certi versi ho trovato la serie molto realistica, sia negli aspetti positivi che negativi» spiega Monica Solbiati, medico del Pronto Soccorso dell’ IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano «I motivi per cui il PS a volte funziona male non sono interni al reparto, ma dipendono dal sistema: pochi posti letto, lunghe attese per il ricovero, accessi impropri di persone che avrebbero bisogno di un altro percorso, il doverci fare carico di situazioni più sociali che cliniche. Tutto questo, unito alla necessità di occuparsi contemporaneamente di molte cose, rende il Pronto Soccorso unico. Ed è altrettanto realistica la visione “umana”: ogni medico entra in turno con il proprio vissuto e ne esce arricchito, ma spesso con un peso sulle spalle. Però non è mai solo: il rapporto con i colleghi crea un’esperienza che chi non lavora in PS non può capire».
Medicina d’urgenza tra etica, leadership e dignità
Una dimensione corale che torna di nuovo anche nelle parole di De Iaco, che individua un nodo etico cruciale. «Prima ancora del tema del fine vita di cui parla il collega Carpinteri, ho colto l’accenno alla desistenza da cure inappropriate. È un problema enorme anche in Italia: pazienti molto anziani, in fase terminale, per i quali la prosecuzione di cure aggressive sarebbe futile, ma che spesso vengono trattati lo stesso, per timore di sanzioni o perché mancano le pianificazioni condivise delle cure. In Pronto Soccorso vediamo arrivare persone che, con ogni probabilità, avrebbero bisogno di restare nel loro letto ricevendo cure palliative. Invece transitano da noi. È un fenomeno doloroso, ma reale». Ed è proprio nel rapporto con la morte e la dignità che la fiction trova forse la sua cifra più alta. Ma The Pitt non mostra solo l’aspetto clinico. Racconta anche il rapporto con i pazienti e con le loro famiglie. «Mi ha colpita molto– continua Francesca Cucuzza – la scena in cui, nel bel mezzo di numerose emergenze, il protagonista viene interrotto dalla manager dell’ospedale per discutere di quanto fosse basso il livello di gradimento del PS. La risposta cinica del dottor Robbie, e cioè “se sono ancora vivi dovrebbero ritenersi ampiamente soddisfatti” fa sorridere, ma rispecchia perfettamente la realtà: non solo ci troviamo a gestire patologie croniche o non gravi che dovrebbero essere prese in carico altrove, ma veniamo anche accusati di insensibilità quando non possiamo dare notizie di persona ai parenti o permetterne l’accesso. In verità, se non ci spostiamo dalle nostre postazioni, è perché stiamo lavorando: curiamo i malati».
Mario Guarino, direttore del Pronto Soccorso del CTO, a Napoli, richiama l’attenzione su un aspetto che spesso le serie americane trascurano: il costo delle cure. «The Pitt è un ospedale americano e vi accedono solo i possessori di assicurazione o i solventi con carta di credito. Nelle fiction non si vede: quanto costano davvero quelle cure agli utenti? Un anziano con reddito basso, non autosufficiente, non troverebbe spazio. È una differenza sostanziale con il nostro sistema sanitario». Eppure, al di là dei diversi contesti, resta il fascino della disciplina: nonostante la specializzazione resti tra le meno richieste dai giovani laureati. «Credo che la medicina d’urgenza in sé abbia un grande appeal sugli studenti» riflette Guarino. «Non è la disciplina a spaventare, ma l’entropia del sistema: sovraffollamento, turni stressanti, boarding. Se ci fosse un modello pienamente rispettoso della dignità professionale, con una leadership capace di insegnare, proteggere e costruire il gruppo di medici e infermieri, questo sarebbe un grande traino per i giovani. Ed è anche qui che la fiction coglie nel segno: mostra quanto conti la forza del lavoro di squadra». Lavoro di squadra che spesso, però, è solo del Pronto Soccorso: mentre il resto dell’ospedale sta a guardare, preferisce ignorare ciò che succede “nel pozzo” (traduzione letterale del titolo della serie, che “gioca” anche con l’abbrevazione di Pittsburgh) non agevola i ricoveri o addirittura gioca la partita dell’ostracismo. «Nella serie c’è un bel riferimento al fatto che a volte il PS viene visto come il reparto “problematico”, quando invece il problema dipende da quel che c’è intorno» dice ancora Solbiati. «Il riferimento agli specialisti mi sembra realistico invece. Certo, loro forse li coinvolgono meno di quanto facciamo noi, a volte. Ma anche lì si vede come a volte lo specialista venga in PS a fare un po’ il “superiore” e decida lui se il paziente lo riguarda o no. Il problema del fine vita invece è molto estremizzato… penso al paziente che devono intubare su richiesta dei figli…da noi non succederebbe. Poco realistica sicuramente mi è sembrata la preparazione molto “avanzata” degli studenti». La dottoressa milanese continua poi ricordando i tempi di ER e l’influsso che ha avuto su interi team di urgentisti. «Tanti della mia generazione hanno voluto fare medicina proprio essendo cresciuti con ER…io penso che oggigiorno le difficoltà che incontriamo sul lavoro siano fin troppo stressate dai media, e questo dà un’impressione a volte persino peggiore di come stanno davvero le cose. Penso che la serie possa riaccendere l’interesse verso la medicina d’urgenza facendo sì capire le difficoltà, il fatto che si tratti di un lavoro duro, ma anche estremamente appagante e in cui si sente davvero di fare la differenza. Non perché si “salvano vite”, ma perché si può davvero agire sul sistema e dove ogni piccola decisione, anche organizzativa, può cambiare nettamente le cose».
La lezione di The Pitt: la carne del mondo.
Alla fine, nonostante la spettacolarizzazione inevitabile, resta una verità che attraversa tutte le testimonianze. «La densità e la varietà dell’umanità che passa in un Pronto Soccorso è davvero ciò che lo rende unico» conclude De Iaco. «Per me è il valore più alto di questo lavoro. Alda Merini la chiamava “la carne del mondo”: è esattamente quello che vediamo ogni giorno».