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Liberaci dal male, quali sono i farmaci per guarire il dolore cronico

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Nel 2025, la battaglia contro il dolore è lontano dall’essere vinta. Nonostante la ricerca e gli enormi progressi della farmacologia, siamo - ancora - troppe volte lasciati da soli a fronteggiare il male. E spesso non veniamo creduti, o sufficientemente considerati, o abbastanza informati dai medici che dovrebbero aiutarci a lenire la sofferenza. Quasi 10 milioni di italiani soffrono di dolore cronico di intensità moderata o severa: si tratta del 20 per cento dei maggiorenni, e per ogni paziente - secondo il rapporto Censis-Grünenthal Vivere senza dolore riferito al 2023 - si spendono più di 6.300 euro all’anno tra costi diretti e indiretti. Per il 68 per cento di questi malati peggiora la qualità di vita. E da una indagine europea riferita al 2020, è emerso che nel nostro Paese anche i pazienti oncologici fanno fatica a ricevere adeguati trattamenti antalgici: il dolore correlato al cancro è sotto-trattato, «con drammatiche ripercussioni fisiche ed emotive». Il problema peraltro passa quasi inosservato, mentre il dibattito italiano si concentra esclusivamente sul fine vita e sulla necessità o meno di legiferare sull’eutanasia legalizzata, quando sarebbe eticamente e clinicamente più importante adoperarsi per tenere nella giusta considerazione la lotta al dolore, sovente derubricato a «male necessario» da sopportare.

Eppure, in Italia, le leggi per facilitare l’accesso alle cure antalgiche ci sono già, da molti anni. «Siamo il Paese che ha più normato l’applicazione dei protocolli di cura del dolore: abbiamo una legge, la numero 38 del 2010, che consente anche ai medici di base le prescrizioni con semplice ricetta, ma si fa troppa fatica ad applicarla» spiega Paolo Notaro, direttore del reparto di Terapia del dolore dell’ospedale Niguarda di Milano. «Il bisogno di cura dei malati sfugge ancora, soprattutto sfugge il concetto che il dolore, se non riconosciuto precocemente e trattato controllo in tempi brevi, diventa una patologia sistemica: malattia-dolore. Per anni abbiamo classificato separatamente dolore biologico e fisiologico, sbagliando: se non si prende in carico tempestivamente il paziente nella sua globalità, quel malato avrà un impatto immunologico, ormonale, depressivo, neurologico, ansiogeno che lo renderà cronico, con enormi ricadute sociali ed economiche». Il cuore del problema sta sul territorio, in quelle poche ore al giorno che i medici di famiglia mettono a disposizione degli assistiti: insufficienti per analizzare compiutamente la situazione e cercare soluzioni integrate. «Il trattamento del dolore è purtroppo ancora troppo legato alla disponibilità e alla sensibilità del singolo medico curante» afferma Fabio De Iaco, primario di Pronto soccorso all’Ospedale Maria Vittoria di Torino e past-president Simeu (Società italiana medicina di emergenza e Urgenza). «In Pronto soccorso vediamo arrivare troppi pazienti, con dolore di ogni tipo, non adeguatamente curato. E questo nonostante non esistano più pastoie burocratiche che impediscano la prescrizione anche di farmaci molto potenti come gli oppiacei. Persiste però, da parte di chi fa sanità sul territorio, un certo timore di conseguenze legali, spesso con tattiche di medicina difensiva. E poi esiste ancora una generale sottovalutazione culturale del problema. È necessario un cambio di passo».

Ma una volta che la sofferenza (a schiena, testa, ovunque) è partita e non regredisce, l’aspirina non ha fatto nulla, il medico di base ci ha prescritto il paracetamolo che - ovviamente - a un certo punto non basta più, e ci precipitiamo nostro malgrado in Pronto soccorso in preda al male lancinante dovuto a sciatalgie, nevralgie del trigemino, coliche, cefalee, o altro, cosa ci viene somministrato? Esiste davvero uno stigma contro gli oppiacei, magari dovuto ai casi di cronaca e alla reputazione di farmaci come Fentanyl e Oxycontin, capaci di creare «zombie» dipendenti dalle pillole, con l’incubo di diventare come i tossicodipendenti all’ultimo stadio che si incontrano in certe città americane?«Assolutamente no, nessuno stigma» risponde De Iaco. «Usare oppioidi è fondamentale, occorre far comprendere come siano i nostri migliori alleati in caso di dolore importante: anche perché soffrire limita la capacità di scelta di una persona, erge un muro di non comunicazione con i medici. Finché il paziente sta male non riesce a valutare cosa sia meglio per sé stesso, non comprende le opzioni che proponiamo: per poter procedere con le cure, io medico devo innanzitutto spegnere, in qualsiasi modo, questo dolore».

Per fortuna esistono tante formulazioni nuove - sempre nel campo degli oppioidi - come cerotti transdermici, preparati sublinguali o spray nasali, che permettono di intervenire in tempi rapidissimi o in emergenza, direttamente sul luogo di un incidente oppure in ambulanza. Preziosissimi quando non si riesce a effettuare un accesso venoso, magari per temperature troppo basse (che provocano la contrazione dei vasi sanguigni) o per eccessiva agitazione dei pazienti. Oltre i farmaci, ci sono altre chance. «Per esempio tecniche di chirurgia antalgica» precisa Simeone Liguori, direttore del Reparto di cure palliative e terapia dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. «Possiamo utilizzare sistemi impiantabili composti da elettrocateteri, con poli metallici, nella colonna vertebrale - o nei gangli nervosi o in prossimità dei nervi periferici - per effettuare la stimolazione elettrica dei punti-target nel midollo spinale. Poi “device” farmacologici, cioè pompe con catetere da inserire nel liquor vertebrale: sono piccoli computer, tramite i quali decidiamo quanto farmaco deve essere somministrato nelle 24 ore. Oltre alla morfina disponiamo anche dello ziconotide, analgesico estratto da una conchiglia originaria dell’Oceano indiano. Può dare efficacia antalgica a dosaggi bassi e non è un oppioide: quindi anche se la pompa si svuota non provoca crisi di astinenza».

Tanti anni, e tanta ricerca, sono passati da quel 16 ottobre 1846, quando sul tavolo operatorio del Massachussets General Hospital di Boston veniva per la prima volta utilizzata l’anestesia con l’etere su un paziente con un tumore al collo, dopo secoli in cui si era ricorso a rimedi poco efficaci come canapa, mandragora, alcol, oppio, laudano... (non a caso il 16 ottobre è la Giornata mondiale dell’anestesia). L’era senza dolore iniziava allora. A 200 anni di distanza, la scienza ci consente di fronteggiare il male; la burocrazia, i tabù e una inadeguata medicina del territorio ci tengono ancora prigionieri