Xi Jinping, la grande retromarcia
Il leggendario generale Sun Tzu, giocando con i paradossi, sosteneva che «l’invincibilità sta nella difesa e la vulnerabilità sta nell’attacco, e spesso sono le ritirate più brusche a condurre alle migliori vittorie». Vista la clamorosa ritirata appena messa in atto da Xi Jinping, viene da pensare che L’arte della guerra, il capolavoro scritto dallo stratega-filosofo cinese nel quinto secolo avanti Cristo, possa essere tra i suoi saggi di formazione. Non si riuscirebbe a spiegare altrimenti la serafica indifferenza con cui il 17 febbraio il presidente-autarca della Cina ha letteralmente ribaltato gli ultimi quattro-cinque anni di linea politica ed economica. Quel giorno, a Pechino, Xi ha incontrato Jack Ma di Alibaba e tutti i principali leader dei colossi privati cinesi dell’hi-tech: dal fondatore del gigante delle telecomunicazioni Huawei, Ren Zhengfei, a quello del primo produttore di veicoli elettrici BYD, Wang Chuanfu, fino al geniale sviluppatore dell’intelligenza artificiale di DeepSeek, Liang Wenfeng.
La cerimonia, scenografica e pomposa, è andata in scena nel cuore del potere cinese: la Grande sala del Popolo di Pechino, l’immenso palazzo all’angolo di piazza Tienanmen che ospita l’Assemblea nazionale e i congressi del Partito comunista. A suo modo, l’incontro verrà ricordato come un momento storico, ma di certo è stato anche un passaggio strano. Da quasi un lustro, infatti, Xi aveva decretato il brusco ridimensionamento dei maggiori imprenditori privati. In molti casi li aveva espropriati. E alcuni di loro erano stati perfino estromessi brutalmente dalla scena, com’era accaduto proprio a Jack Ma, sparito dall’orizzonte nell’autunno 2020 per le critiche che aveva osato rivolgere al sistema bancario. Come spesso succede in Cina, all’improvviso e misteriosamente tutto cambia di nuovo. Il fondatore di Alibaba, il gigante delle vendite online con un fatturato da 130 miliardi di dollari per 205 mila dipendenti, viene riabilitato con tutti gli onori e a favore di telecamera. E il Partito decreta una nuova era di fraterna alleanza con gli imprenditori privati: in piedi nella Grande sala, Xi - che per l’occasione aveva lasciato nell’armadio la divisa paramilitare di foggia maoista per indossare un pacioso giaccone blu che faceva quasi pensare a Sergio Marchionne - li ha esortati a «essere pieni di spirito imprenditoriale e patriottico, a elevare gli ideali e a coltivare il profondo senso della responsabilità nazionale».
Così il più comunista tra gli ultimi presidenti cinesi s’è messo di colpo a fare il «liberale». Durante e dopo il Covid, Xi Jinping aveva riesumato i dogmi e le regole della dottrina marxista, e aveva stretto il cappio al collo di tutte le grandi imprese. Oggi, dopo la frenata economica del Paese, il presidente-quasi-a-vita chiede invece a quelle stesse imprese di «contribuire sempre di più alla promozione tecnologica e alla costruzione di un moderno sistema industriale». Sembra di sentire Deng Xiaoping, il predecessore di Xi che nel 1992 aveva lanciato lo slogan «Arricchirsi è glorioso» - decisamente eretico per il leader di un Paese comunista - e aveva gettato le basi per oltre due decenni di crescita impetuosa per la Repubblica popolare. Già. Ma perché Xi decide proprio oggi la sua ritirata? Il vero motivo sono i dazi commerciali imposti e minacciati dal nuovo presidente americano Donald Trump: ai primi di febbraio è entrato in vigore un primo 10 per cento di tasse sull’import da Pechino, e ora Washington minaccia un 25 per cento d’imposte sulle auto elettriche made in China, che stanno massacrando la concorrenza occidentale. Nell’insieme, i nuovi dazi assesterebbero un colpo durissimo a un Paese già da un po’ in rallentamento. E Xi sa bene che per la Repubblica popolare le imprese private restano fondamentali, perché - dati dell’ultimo report del suo Istituto nazionale di statistica - contribuiscono a più del 60 per cento del Pil e delle entrate fiscali, a quasi metà del commercio estero e a otto decimi dell’occupazione urbana. Nel 2024, il Prodotto interno lordo cinese è cresciuto ufficialmente del 5 per cento, la misura più bassa degli ultimi decenni, e nel 2025 rallenterà ancora al 4-4,5. Colpa della brusca frenata dei consumi interni, la cui crescita annua media era al 10-15 per cento tra il 2014 e il 2019, ma da allora si è più che dimezzata. E a nulla è servito il taglio dei tassi d’interesse, deciso dalla Banca centrale alla fine di ottobre.
Oggi, insomma, l’unica vera forza della Repubblica popolare restano le sue esportazioni: nel 2024 hanno prodotto un surplus commerciale di 992 miliardi di dollari, realizzato soprattutto nei confronti degli Stati Uniti (361 miliardi) e dell’Europa (247). Se i dazi di Trump finissero per bloccare gli ingranaggi dell’export, insomma, per Pechino sarebbero guai seri. Questo spiega l’inattesa «chiamata alle armi» di Xi agli imprenditori. Il presidente cerca di rimettere sui binari l’economia nazionale, in parte deragliata proprio per le sue politiche degli ultimi due-tre anni. Xi, che ormai è al potere dal 2013, non ha mai saputo affrontare la disastrosa crisi immobiliare, che ammorba la Cina dalla fine del 2016 con il suo micidiale eccesso di offerta: i prezzi delle case continuano a scendere e i fallimenti delle grandi società del settore proseguono senza sosta. È come se il presidente-autarca mescolasse in sé eccessi di autoritarismo e paralisi decisionali. Xi ha gestito con pugno di ferro la pandemia, spedendo l’esercito a segregare intere città e grandi fabbriche, e frenando le fondamentali attività portuali per tutto il 2020 e per buona parte dei due anni successivi. Xi s’è mosso ancor peggio in campo internazionale, esercitando crescenti pressioni militari su Taiwan e sulle Filippine, e decretando l’abolizione delle libertà democratiche e gli arresti dei dissidenti nella provincia «normalizzata» di Hong Kong. Così facendo, però, ha spaventato e indotto alla fuga di massa le grandi società occidentali.
Nel 2024 gli investimenti diretti stranieri nella Repubblica popolare sono crollati di quasi 170 miliardi di dollari, un calo vicino al 30 per cento. E la tendenza è continuata questo gennaio, con una nuova riduzione del 13 per cento. Per quanto incline all’autoritarismo, Xi sembra però incapace di gestire i problemi interni. A partire dalla crisi demografica: i tassi di natalità in discesa hanno fatto sì che nel 2024, per la prima volta da almeno 70 anni, la popolazione cinese calasse di 1,4 milioni di unità, regalando all’India il primato globale. Intanto la disoccupazione giovanile resta sopra il 17 per cento. E il debito pubblico esplode, soprattutto nelle province. La misura effettiva dell’indebitamento degli enti locali cinesi viene gestita come un segreto di Stato, ma il settimanale economico The Economist stima superi gli 8.400 miliardi di dollari, tanto che in ottobre il governo ha dovuto varare un piano da 840 miliardi per iniziare a ripianarlo, più o meno di un decimo. Il debito, peraltro, inizia a essere un problema anche a livello centrale, in parte per l’impressionante aumento della spesa militare (vedere il box a sinistra).
Ce la farà Xi Jinping? Vedremo. Di certo, in attesa dei dazi di Trump, che per lui sono già molto peggio della classica spada di Damocle, il presidente cinese farà bene a mettere il suo amato Marx nel cassetto. Meglio rileggere qualche capitolo dello stratega Sun Tzu.