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Donbass, una guerra senza fine - Video

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Il più giovane della squadra scatta verso il pezzo di artiglieria con il grosso proiettile da 105 millimetri fra le braccia e lo infila nella canna. Il capo pezzo grida gli ordini, si gira di scatto con le spalle all’obice, assieme all’altro servente, e fa fuoco. Dal cannone parte una vampata rossa con un tonfo sordo, che fa fischiare le orecchie. Subito dopo un secondo colpo lanciato dall’artiglieria italiana dell’Oto Melara - un po’ datata, ma sempre buona - sibila nell’aria verso il bersaglio. Le immagini riprese dal drone ucraino dell’impatto delle granate sulle postazioni russe a sei chilometri di distanza sul fronte di Pokrovsk, il più caldo del Donbass, rendono l’idea. Le esplosioni a raffica alzano colonne di fumo grigio facendo a brandelli ruderi di cemento dove sono asserragliati gli invasori, che hanno semicircondato la cittadina strategica. Ecco la guerra.

Nel Donbass i russi attaccano su tutta la linea del fronte, anche 250 volte in 24 ore. E in dicembre registravano fino a 1.200 fra morti e feriti al giorno. Un inferno, con gli ucraini che talvolta sono in rapporto di un combattente a otto rispetto al nemico. La postazione dell’obice fornito dall’Italia è ben mimetizzata, fra gli arbusti rinsecchiti dal gelo che spuntano in un paesaggio innevato, completamente avvolta da una rete che serve a nascondere il pezzo ai droni e viene alzata solo per far fuoco. A intermittenza si sentono esplosioni e colpi in uscita dalle altre batterie nascoste nella radura. Su questo fronte sono stati schierati almeno cinque cannoni da 105 dell’Oto Melara, che fanno parte dei pacchetti di aiuti militari del nostro paese all’Ucraina. Sem, nome di battaglia del comandante della squadra, ci fa correre via veloci per evitare il fuoco di contro batteria oppure i droni. Una vicina casa abbandonata è la base degli artiglieri della 15esima brigata della Guardia nazionale. «Siamo fortunati. Ci facciamo da mangiare, anche il tè caldo e dormiamo su delle brande» racconta il comandante Sem. «Per colpire i russi con l’artiglieria abbiamo vissuto pure nelle foreste o dentro le grotte».

Sulla via del ritorno il «bip bip» confortante del sistema di disturbo dei droni montato sul mezzo degli ucraini è interrotto da una tremenda esplosione sulla nostra destra, a qualche centinaio di metri. L’ufficiale di scorta, come se fosse assolutamente normale, ci comunica: «Fab, una bomba planante dei russi», che viene lanciata a distanza dagli aerei fino a 70 chilometri. La dimensione del conflitto in trincea è sempre più spaventosa e devastante. Vadim è un veterano che combatte dall’inizio dell’invasione, promosso capitano sul campo, dopo aver passato l’ultimo anno in prima linea nel Donbass. «Vicino a Kalinove i russi hanno lanciato una tempesta di razzi Grad contro di noi, almeno quaranta» dice. «Prima senti i sibili di una raffica terrificante in arrivo dal cielo e poi il botto tremendo che scatena un terremoto. Sono scoppiati a una quindicina di metri dalla trincea. Pietre, terra ti volano addosso e il fumo avvolge tutto. Per l’odore dell’esplosione ho vomitato. Pensavo di morire, ma sono sopravvissuto».

Non è un caso che alle trincee vengono affibbiati nomignoli inquietanti come «Carne marcia» per i soldati massacrati. Vadim è un ex pilota cresciuto nell’Urss, che aveva lasciato il servizio attivo nel 1997 dedicandosi alla pittura. Il giorno dell’invasione è tornato a imbracciare il fucile, ma oggi ha 59 anni. «In trincea sono passato a fumare la pipa perché i cecchini individuano la brace della sigaretta accesa a distanza. E ti sparano precisi, in testa, da 400 metri» ironizza il «Nonno», come da nome di battaglia.

Nel suo plotone di 22 uomini il più giovane aveva 36 anni, uno si è suicidato, due hanno disertato «e altri sono morti o feriti» ricorda scuotendo la testa. «Vorrei dimenticare tutto, cancellare l’orrore dalla memoria, ma so che è impossibile» sussurra Vadim con un brivido che lo scuote. Poi si ricompone e parla di «Oleksi, che ha guardato negli occhi un soldato russo all’assalto della trincea, un attimo prima di sparargli e ucciderlo». Due giorni dopo il soldato è andato dal capitano per chiedere aiuto: «Diceva che il russo gli appariva in sogno, che lo vedeva seduto accanto a lui e gli parlava. Non sapevo cosa fare. Gli ho detto di scolarsi una bottiglia di vodka».I russi non attaccano più a ondate, ma si dividono in piccoli gruppi di tre e non mollano mai. «Ho visto nemici avanzare verso la trincea come se facessero una passeggiata, camminando, con il fucile spianato. Erano completamente fatti di droga» spiega il capitano. Alla moglie diceva al telefono che lo avevano messo sulla terza linea, ma poi «esplodeva vicino a me una granata e lei capiva tutto». A Umanske ha visto l’inferno in tre giorni continui di bombardamento d’artiglieria con i piccoli droni esplosivi che penetrano nelle trincee. Uno dei suoi uomini, completamente ubriaco, gli ha sparato una raffica di kalashnikov. «Sono vivo per miracolo» ricorda. «Prima che ricaricasse l’ho disarmato saltandogli addosso. «È scoppiato a piangere chiedendo scusa e dicendo che non capiva perché lo avesse fatto. Non me la sono sentita di mandarlo alla corte marziale».

Il 20 per cento del Donbass ancora in mano agli ucraini è disseminato di rifugi in cemento armato per i civili. A ridosso del fronte, scavati sottoterra, sono segreti i centri di primo soccorso dove i feriti che arrivano dalle trincee vengono stabilizzati prima di trasferirli agli ospedali nelle retrovie. Dalle città e villaggi è fuggito il 70 per cento della popolazione. Lungo le strade desolate i tronchi degli alberi avvolti per il gelo invernale sono martoriati da bombardamenti o cannonate. Si viaggia sempre a tutta velocità, senza fermarsi, perchè i droni russi volano dappertutto, avvoltoi a caccia di prede. L’ultima trovata è un sottile cavo di fibra ottica collegato ai velivoli senza pilota più piccoli e insidiosi, per una dozzina di chilometri, che trasmette il segnale fino al bersaglio. «Impossibile intercettarli o disturbarli con la guerra elettronica, come gli altri, ma adesso li abbiamo pure noi» spiega Sueta, nome di battaglia del capo squadra dei droni della 109sima brigata della Difesa territoriale. Barbone rosso e mimetica, è un omaccione che di mestiere fa l’ingegnere. E ha all’attivo «600 soldati russi eliminati» con i droni a quattro eliche in vendita su Amazon, che sganciano bombe a mano, oltre a «15 pezzi di artiglieria e altrettanti carri armati» centrati dai più grossi velivoli kamikaze ucraini. «I russi lanciano gli Shahed iraniani, droni suicidi che volano a frotte sopra le nostre teste in quest’area per poi andare a colpire le grandi città, fuori dal Donbass, come Kharkiv e Dnipro» dice Viktor, giovane addetto stampa della brigata con orecchini e baffetti.

Al lugubre ululato della sirena dell’allarme aereo, che suona più volte al giorno, gli abitanti del Donbass hanno fatto l’abitudine. Non corrono più neanche verso i rifugi. Alzano gli occhi al cielo solo quando sentono un’esplosione e accelerano il passo. L’allarme suona a Kramatorsk, ma il rumore del bombardamento, attutito dalla distanza, arriva dalla vicina Sloviansk. Le due città sono la linea del Piave ucraino nel Donbass.

I vigili del fuoco stanno spegnendo i focolai d’incendio fra le macerie fumanti delle abitazioni fatte a pezzi sulla collina di Sloviansk. Case basse e umili sventrate nel raggio di 200 metri da una bomba scoppiata a mezz’aria o da un missile intercettato, perché non si vede un cratere. La distruzione è totale, ma per miracolo i feriti sono solo quattro. Gran parte delle persone non era in casa.

Svetlana piange davanti al piccolo edificio distrutto da dove parenti e amici tirano fuori quello che si può recuperare fra vestiti, posate e un grande orso di pezza. «Dove andrò con questo freddo e i miei due figli che hanno solo 6 e 15 anni?» si chiede disperata la giovane madre. Tatyana e il marito, con un cerotto sulla fronte, sono sotto shock. La coppia vive con una pensione che equivale a 170 euro, in due, al mese. «Guardavamo la tv e le pareti hanno tremato come foglie» racconta l’anziana con gli occhi lucidi. «I vetri delle finestre si sono infranti e mio marito è caduto a terra. Gli ho urlato: sei vivo? Basta, non ne possiamo più. Putin non ha avuto abbastanza del nostro sangue? È ora di finirla con questa guerra». La maggioranza della popolazione, secondo un sondaggio, vuole negoziare la pace. Il 38 per cento, in aumento rispetto ai mesi precedenti, sarebbe pronto a concessioni territoriali.

Due schegge in una gamba, un timpano rotto, il capitano Vadim, si reputa fortunato. Dopo un anno in prima linea, presta servizio nel comando avanzato davanti a una decina di schermi con le riprese dei droni, che servono a raccogliere informazioni sul campo di battaglia. La guerra continua a vederla ogni giorno, ma più lontana. Su Donald Trump e il congelamento del conflitto spiega che «se mi ordinano di continuare a combattere sono pronto a morire. Un cessate il fuoco, però, ci permetterà di tirare il fiato e organizzare meglio l’esercito. Bisogna vedere i termini, ma molti soldati in trincea vogliono la tregua. Non ne possono più».

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