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Alzheimer: nuovi farmaci possono migliorare l'autonomia dei pazienti

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“Ti ripeterò il mio nome mille volte perché tanto te lo scorderai”. Simone Cristicchi ha fatto piangere tutti. La canzone “Quando sarai piccola” rimarrà nella storia del Festival di Sanremo. Un momento intimo in cui si sono rispecchiati milioni di italiani. I genitori si invecchiano e si ammalano, i figli dovranno prendersene cura. Ma non è solo questo. Il testo del cantautore romano è diventato l’occasione per tornare a parlare di Alzheimer. Un tipo di demenza che solitamente ci coglie impreparati. Il suo inizio è subdolo, difficile da comprendere a primo impatto. Come riporta l’Istituto Superiore di Sanità, “le persone cominciano a dimenticare alcune cose, per arrivare al punto in cui non riescono più a riconoscere nemmeno i familiari e hanno bisogno di aiuto anche per le attività quotidiane più semplici”. Oggi in Italia ne sono colpiti circa 500mila individui. La perdita della memoria è il sintomo più evidente. Ma non è l’unico. Viene intaccata la capacità di parlare, possono emergere stati di confusione e cambiamenti di umore. Per i pazienti e i loro famigliari si tratta di un percorso complesso. Anche perché, ad oggi, diagnosticare in modo certo l’Alzheimer è possibile solo post mortem. Altrimenti si deve rimanere sempre nel campo del “possibile” o del “probabile”.

Esistono soluzioni? Panorama recentemente ha parlato del lavoro di alcuni ricercatori italiani. Un gene potrebbe essere all’origine della malattia. Ma non solo; importanti novità riguardano i farmaci monoclonali per combattere l’Alzheimer. Si chiamano “lecanemab” e “donanemab”. Due terapie introdotte negli Stati Uniti ma ancora non disponibili in Italia. Per molti il beneficio rimane ancora esiguo e spesso i pazienti lamentano l’assenza di miglioramenti dopo averli assunti. Eppure, un nuovo studio della University of Medicine di St. Louis a Washington fa ben sperare. A quanto riportano gli autori, un individuo con sintomi lievi di declino cognitivo potrebbe vivere 29 mesi senza trattamento. In particolare, il donanemab ha aggiunto otto mesi di indipendenza, mentre l’assunzione di lecanemab ne ha aggiunti dieci. In una fase più avanzata dell’Alzheimer, invece, la ricerca ha mostrato come le terapie monoclonali siano allo stesso modo efficaci. Diciannove mesi aggiuntivi di capacità di vestirsi, lavarsi e mangiare in modo indipendente. Nonostante gli ottimi risultati, è bene non considerare tali rimedi come degli elisir di lunga vita.

Lo scopo del documento è quello di mettere l’impatto di questi farmaci in un contesto che possa aiutare le persone a prendere le decisioni migliori per loro stesse e per i loro familiari”, ha affermato Sarah Hartz, relatrice principale del lavoro. Bisogna ricordare che l’Ema, l’Agenzia Europea per il Farmaco, ha approvato solo il lecanemab. Sulla questione si dovrà esprimere anche l’Italia attraverso l’Aifa. È chiaro che affrontare l’Alzheimer rimanga un problema complesso. I trattamenti disponibili per ora sono solamente in grado di contenere la malattia. In un simile contesto, e gli studiosi confermano, un ruolo chiave lo giocherà sempre di più la prevenzione. A partire da quando si è giovani è fondamentale prendersi cura della propria alimentazione, ridurre le sostanze nocive come il fumo e l’alcol. Ma soprattutto: va tenuta allenata la mente. Stimolarla con letture, cruciverba e altre attività culturali rimane necessario. Mentre l’avvenire fa ben sperare anche sul lato dei medicinali.