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Via col Veneto

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Da Agordo a Valeggio sul Mincio, la Liga si solleva. Oltre trecento banchetti. Centomila firme raccolte, si spera. Lo scettro del sacro impero nordestino resti in mano al più illuminato dei sovrani: sua maestà, Luca Zaia. Il manifesto che annuncia la campagna è di un adeguato color rosso pompeiano. Lo slogan riecheggia leggendari trascorsi: «Veneto ai veneti». Gli alleati romani non vogliono concedere il terzo mandato di fila, che poi sarebbe il quarto? Ebbene, dovranno rimangiarsi il divieto davanti al voleri del territorio. È il sostantivo che riecheggia il glorioso passato. I vecchi possidenti vorrebbero esporlo come un vessillo sul Carroccio, per evitare la deriva nazionalista. Il territorio, appunto. Sognano di far risplendere ancora il sole delle Alpi e di svuotare l’ampolla del Po nella Laguna. Un grido resta strozzato in gola: «Roma ladrona». Via col Veneto, allora. Poi, si vedrà. Se Zaia non dovesse farcela, l’importante è evitare la colonizzazione di Fratelli d’Italia. Alle Europee ha sbancato: quasi il 38 per cento, il triplo della Lega. «Alora?» si domandano nella Marca. Alle scorse Regionali la Lista Zaia non ha preso il 23 da sola? Il governatore minaccia la corsa solitaria. S’arriverà, magari, a un compromesso: non Zaia, ma un futuro Zaia. Per esempio Mario Conte, indomito sindaco di Treviso. Per la Lega comincia un anno più spumeggiante di un prosecchino. A fine marzo dovrebbe celebrarsi l’atteso congresso federale. Infaticabile come Fausto Coppi, c’è un uomo solo al comando: Matteo Salvini. Il vicepremier sarà l’unico
candidato alla sua successione.

Mezzo partito, però, vagheggia tempi andati. Quel che resta da discutere è comunque sostanziale: la linea politica del partito. Sovranisti o regionalisti? Patrioti come a Bruxelles o autonomisti come a Venezia? E i nostalgici daranno un colpo? Chi ne ha già assestati parecchi è Massimiliano Romeo, capogruppo al Senato, eletto due mesi fa segretario della Lega Lombardia. «Caro Matteo, se non parliamo più del Nord, noi al Nord i voti non li prendiamo più» dice lo scorso dicembre dal palco, scatenando gli astanti. «Il malcontento non si può derubricare a qualche rompiscatole». E giù applausi. «Dobbiamo recuperare la nostra identità». Boato. «Bisogna aggiustare la rotta, perché non sempre è stata giusta». Ovazione. «Ridiventiamo il sindacato dei territori, come diceva Roberto Maroni». Eletto per acclamazione, dunque. Insomma, da Zaia a Romeo, si chiede un ritorno a quel che la Lega fu: un movimento, più che un partito. Anche Massimiliano Fedriga, governatore del Friuli-Venezia Giulia e presidente della conferenza delle Regioni, la butta lì: «Non siamo replicanti». Alcune battaglie in Europa rimangono condivise, ci mancherebbe: dalla guerra al green deal all’avversione per il wokismo. Inutile, però, tentare di sorpassare a destra Fratelli d’Italia. Bisogna evitare, aggiungono in privato i maggiorenti, quel nazionalismo inconciliabile con l’autonomia. Ma c’è ancora speranza, esortano .Abbiamo vissuto momenti peggiori, ricordano. Dodici anni fa, in effetti, la Lega sembrava destinata all’estinzione.

Era la notte dei tempi. Anzi, la «notte delle scope». Aprile 2012: Maroni imbraccia la ramazza perché «l’è ura de netà fo’ol po’ler». Già, è ora di pulire il pollaio. Dagli scandali di Umberto Bossi e famiglia, con la decisiva complicità dell’allora tesoriere, Francesco Belsito. Lingotti, diamanti, soldi in Tanzania. E la celeberrima laurea in Albania del «Trota», il figliolo dell’Umberto. Nel 2013 Matteo diventa segretario. Aria nuova. Qualche anno, si allea con i Cinquestelle e appoggia il governo di Giuseppe Conte. Alle Europee del 2019, il Carroccio supera il 34 per cento. Poi, lo strappo del Papeete. Sfumati i giallo-verdi, di nuovo all’opposizione. Fino all’avvento di Mario Draghi. Salvini segue il convincimento di Giancarlo Giorgetti, vicesegretario federale e futuro ministro dell’Economia: bisogna stare dentro, per evitare di lasciare il Paese a Pd e grillini. Saremo di lotta e di governo, annuncia. Gli elettori capiranno. Non capiscono. Immigrazione, green pass, pensioni. Lotta o governo? Tenere il piede in due scarpe finisce per favorire l’unico partito all’opposizione: Fratelli d’Italia. La Lega, nei sondaggi, prima torna al 17 percento raccolto nel 2018. Alle Politiche del 2022, però, la percentuale quasi si dimezza: 9 per cento. Da quel momento, nessun sussulto. Resta appaiata a Forza Italia, che tiene botta dopo la scomparsa del Cavaliere: decimale più, decimale meno. Anche alle scorse Europee, nonostante il mezzo milione di voti del generale Roberto Vannacci: autore del dibattutissimo Mondo al contrario e candidato come indipendente. Dai governi istituzionali in Italia alla ribalda solitudine in Europa. Dall’amara medicina alla ricostituente sovranista. I consensi, però, non lievitano. La Seconda repubblica insegna: focosi innamoramenti possono finire in maniera repentina. Matteo Renzi, per esempio: il premier più giovane della storia, autore di quel prodigioso 40 per cento del Pd alle Europee. Adesso si barcamena per non scomparire. Anche i Cinque stelle avevano in mano l’Italia: nel 2018 stravincono le elezioni, sfiorando il 33 per cento. Ora nemmeno l’ex premier, Conte, riesce a rianimarli. Niente di nuovo.

Ma la Lega è abituata a discese ardite e risalite, come cantava Battisti. Solo che sullo spirito con cui affrontare l’ardua scarpinata, si diverge. Salvini: da fervente sovranista. Gli altri: da inguaribili nostalgici. Al capitano, però, il frangente politico sembra quantomai propizio. Negli Stati Uniti è diventato presidente quel matto di Donald Trump. A Bruxelles, di conseguenza, gli assonanti Patrioti preparano battaglia. Poi, c’è Elon Musk. Ha già pubblicamente difeso Salvini, prima dell’assoluzione nel processo Open Arms: «Questi magistrati se ne devono andare». Ora l’imprenditore più ricco e potente del pianeta chiede sul suo X di aderire al Movimento Mega, che mutua il motto trumpiano: Make Europe great again. Il capitano aderisce entusiasta. I tenenti borbottano: «Cosa c’entra Musk con i nostri militanti?». Anche Vannacci, come il segretario leghista, lo ammira smodatamente. È il nuovo «Leonardo da Vinci». Il generale rimarca quei confini che invece vogliono abbattere i tradizionalisti. I Patrioti, spiega, sono l’unico gruppo che avrebbe dimostrato coerenza. Hanno votato contro tutto e tutti: commissione europea, guerra a oltranza, armi occidentali in Russia. Del resto, ricorda, a Pontida non c’erano i leader sovranisti del continente? Come il premier magiaro: Victor Orbán. Indietro, dunque, non si può tornare. Soprattutto adesso, con l’internazionale sovranista di Donald ed Elon. Se la Lega dovesse cambiare idea, annuncia sibillino Vannacci in un’intervista al quotidiano La Verità, anche il suo patto di fedeltà sarebbe infranto. Ognuno per la sua strada, allora. Il suo movimento, già pronto a diventare una lista civica alle prossime Regionali, si potrebbe perfino trasformare in un partito. Il modello a cui si ispirano i passatisti, invece, è la Csu bavarese: identitaria e alleata con la Cdu in Germania. Poteri alle leghe regionali, quindi. Salvini federatore. Meno Lega nazionale, più Carroccio. Si comincia con le Regionali, appunto. Il Veneto deve restare alla Lega, Zaia o non Zaia. Giorgia Meloni, dicono, capirà. Può darsi. A quel punto, però, Fratelli d’Italia rivendicherebbe la Lombardia, adesso guidata dal leghista Attilio Fontana, pure lui al secondo mandato. Per i meloniani conquistare la regione sarebbe decisivo. Ignazio La Russa, il presidente del Senato, è un milanese acquisito. Anche il capogruppo del partito a Bruxelles, Carlo Fidanza, è meneghino. E ci sarebbe persino un candidato perfetto: Ettore Prandini, presidente di Coldiretti. Verrebbe sostenuto dal mondo produttivo. Conosce bene la politica. È figlio d’arte: suo padre, Giovanni, è stato un notabile democristiano, già ministro dei Lavori pubblici. A Forza Italia, infine, verrebbe concessa l’indicazione dell’aspirante sindaco di Milano. Via col Veneto, intanto. Il congresso federale dovrebbe tenersi fra qualche settimana. Salvini, dicono, proverà ad accontentare tutti: da Zaia a Vannacci. I due non si amano, però. Saranno mesi spumeggianti. Il governatore, coerentemente, adora le bollicine della sua Conegliano. Il generale, ovviamente, predilige uve diverse. Vino fermo e corposo: «L’unica cosa rossa, anzi nera, che mi piace».