Musil: l'antidoto alla stupidità
Eppure, l’allievo Törless aveva molto desiderato di entrare in collegio. Era stato lui a chiederlo, e i genitori l’avevano avviato a malincuore, soprattutto la madre, che dalla separazione aveva cavato un dolore superficialmente sommesso ma in profondità lacerante. Sulle prime, in effetti, Törless si era trovato bene: si era avvicinato al dolce Principe H., con cui aveva stretto un legame di tenera amicizia. Poi i turbamenti avevano preso il sopravvento. Robert Musil (1880-1942)iniziò a raccontare questa discesa nella più limacciosa oscurità circa 120 anni fa: I turbamenti del giovane Törless, suo primo romanzo ispiratogli dagli anni trascorsi in un collegio militare (lo definiva «buco del culo del diavolo»), fu delineato nel 1903, completato negli anni successivi e uscì nel 1906. Il capolavoro monumentale di questo scrittore d’Austria, incompiuto, sarebbe arrivato una trentina d’anni dopo: L’uomo senza qualità. Nel Törless, tuttavia, vi sono già le tracce della disgregazione che l’ultimo torrenziale romanzo avrebbe dispiegato. Infatti quel primo libro ancora, ferocemente, ci inchioda alla contemporaneità. E non soltanto perché questo capolavoro nero della Mitteleuropa decadente ci consente di fare della sociologia, soffermandoci sulla violenza sadica e brutale che i personaggi principali del romanzo esercitano su un compagno debole, che tengono in pugno con un asfissiante ricatto (non è forse la stessa violenza solo apparentemente insensata e gratuita che oggi va sotto l’etichetta di bullismo?). In Törless c’è molto di più del consueto, doloroso, percorso di formazione. Non c’è solo l’adolescenza bensì l’umanità intera nel contesto della crisi. Il collegio in cui entra l’allievo Törless (a sottolinearne il carattere di educando) è a ben vedere l’intera sovrastruttura dell’Occidente.
La ferrea disciplina e le gerarchie arcaiche con cui esso dovrebbe dare forma ai ragazzi sono la concretizzazione degli antichi valori che agli occhi delle nuove generazioni - dei nuovi uomini - non hanno più senso. Törless è dunque l’uomo sulla soglia dell’abisso: la sua vita perde di significato perché l’intero edificio si è rivelato cadente, insulso. Come informe sarebbe stata l’intera esistenza delineata nell’Uomo senza qualità. Törless, ha scritto Franco Marcoaldi, «è preda di una molle e indefinita nostalgia,
di uno stato di metafisica ac-cidia che da principio trova il suo sfogo nelle lettere inviate quotidianamente ai genitori: puri pretesti per alimentare una sofferenza compiaciuta che lo chiude sempre più nel suo "orgoglio voluttuoso". Tanto che quando scompare la nostalgia, non subentra l’attesa felicità, ma un senso di noia profonda, di “orribile indifferenza”, di vuoto interiore che cresce quanto più viene a mancare qualunque modello, fantastico o reale, cui appigliarsi. E in cui riconoscersi».
Ecco l’accidia, la depressione, il panico che paralizza e, al contempo, spinge verso l’attivismo insensato. Törless - come molti adolescenti odierni, ma pure molti adulti si agita senza direzione, assente e spaesato: «L’irresolutezza diventa dunque il tratto peculiare del carattere di questo ragazzo naturalmente portato allo stupore, mentre quella stessa perplessità lo allontana dalle forme abituali di convivialità tra i cadetti (le zuffe come legare sportive); tutti palliativi, a suo dire, di una relazione profonda e verace». Törless si isola, si allontana dalle attività virili e salutari: la melanconia e la decadenza, suggeriva Nietzsche, si manifestano prima di tutto nel corpo. A smuovere violentemente questa palude interiore interviene appunto la sensualità, che lo aggredisce di nascosto. «Una sensualità terribile, animalesca; che lo avrebbe afferrato coi suoi artigli e dilaniato a partire dagli occhi; un’esperienza che, in modo ancora confuso, doveva avere a che fare con le sottane sporche delle donne, con le loro mani ruvide, con i soffitti bassi delle loro camere, con l’insudiciarsi nella sporci-zia dei loro cortili» L’incontro di Törless con le donne è lo svelarsi di un femminile terribile, sordido e limaccioso: il lato oscuro e divorante della natura. Ben presto, dunque, la sua sensualità si orienta altrove.
Qui si arriva al cuore del romanzo: Törless si avvicina ai due compagni Beineberg e Reiting. Affascinato dalle dottrine orientali, Beineberg disprezza il cristianesimo, si pone come una sorta di illuminato «al di là del bene e del male». Alla perdita di senso del mondo egli reagisce esibendo un nichilismo potente, che non può non sfociare nel sadismo. Prende di mira un altro allievo, tale Basini, un essere viscido e molliccio ,che viene sorpreso a rubare dai tre compagni. Invece di rivelare subito l’accaduto, Beineberg, Reiting e Törless(che non agisce ma osserva senza impedire) si dedicano a una tortura lenta e sempre più angosciante di Basini. Si stabilisce fra i tre carnefici e la vittima un legame perverso, erotico, sadomasochistico, con supplizi sempre peggiori. Il tutto, però, in una naturalezza agghiacciante: nel dipanarsi del nichilismo la crudeltà è naturale e la natura soltanto crudele. Quando infine il peccato (tutto sommato lieve) di Basini viene alla luce, sarà di nuovo lui l’unico a essere davvero punito dall’autorità. La vita, poi, riprenderà a scorrere come se nulla fosse stato. Angoscia, isolamento, brutalità sensuale: sono gli elementi dell’universo del primo Musil e pure del nostro. A cui s’addice perfettamente la pittura di un conterraneoe contemporaneo di Musil, ovvero Egon Schiele. L’artista dei corpi nodosi e contorti, insani. Sagome magre che si stagliano su sfondi bianchissimi, a significare il vuoto esistenziale. Corpi schiacciati e lividi d’inquietudine, da cui sempre più frequentemente sgorga una sensualità infima. Di quegli anni della Mitteleuropa cadente scrisse giustamente Hermann Bahr: «Mai vi fu epoca più sconvolta dalla disperazione, dall’orrore della morte [...]. Mai l’uomo è stato più piccolo. Mai è stato più inquieto [...]. L’uomo chiede urlando la sua anima, un solo grido d’angoscia sale dal nostro tempo. Anche l’arte urla nelle tenebre». Da quelle tenebre escono Musil e Schiele. Il pittore ritrae ripetutamente corpi adolescenti, è un eterno adolescente egli stesso, un Törless più consapevole. Una condizione, l’adolescenza turbata e perenne, che si ripropone nell’Occidente contemporaneo, anch’esso intriso di panico. E Musil su questo panico ragiona nella celeberrima conferenza Sulla stupidità (1937, di recente ristampata dall’editore SE). L’uomo in preda al panico, scrive, non diversamente «da un bambino, può scappare alla cieca davanti a un pericolo o anche lanciarsi, altrettanto alla cieca, dritto nel pericolo, può essere colta da un impulso a spaccare tutto, a distruggere, imprecare o lamentarsi. Tutto sommato, al posto di un’azione finalizzata a uno scopo che sarebbe richiesta dalla sua posizione compirà una quantità di altre azioni, apparentemente insensate, spesso realmente prive di scopo, anzi inopportune. Questo genere di contro gioco è meglio conosciuto come attacco di panico. Ma se l’espressione non viene intesa in senso troppo stretto, si può parlare anche di panico del furore, della voracità e addirittura della tenerezza, come accade anche, infatti, ovunque uno stato di sovreccitazione non riesca a soddisfarsi se non in modo tanto intenso quanto cieco e insensato. [...] Dal punto di vista psicologico, quel che accade quando comincia un attacco di panico è considerato come un arresto dell’intelligenza, e in generale delle modalità psichiche superiori».
Di nuovo quindi l’attivismo insensato. Una condizione che a tratti Musil avvicina appunto alla stupidità di cui si pone come preciso indagatore. Del resto l’aveva conosciuta a fondo quella stupidità, partecipando alla Prima guerra mondiale sul fronte trentino. Lui, imbevuto di filosofia, attento lettore e frequentatore della scienza, ammiratore del caleidoscopio colto e cosmopolita dell’Austria splendente, fu costretto ad osservarne amareggiato il tramonto nel sangue e nell’odio. Quanta stupidità, e così tanto dolorosa. La peggiore forma in cui essa si manifesta, sostiene Musil, non è quella ingenua dei semplici, bensì quella pretenziosa e superiore che «nasce da un sentimento non equilibrato, deforme, di mobilità irregolare». Un atteggiamento di cui è preda soprattutto la classe intellettuale, esattamente quella che si ritiene più illuminata e capace di forgiare l’esistente. Non è difficile dedurne che, in tempi di crollo dell’edificio di valori, questa stupidità arrogante diventi sovrana. E sfoci talvolta in una crudeltà spietata simile a quella del compagno più intellettuale di Törless, Beineberg. Il dramma del nostro presente sta tutto qui: dal disorientamento generale emergono i peggiori, e pretendono di regolare il mondo.