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Il Pronto Soccorso è diventato il nuovo medico di base

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Il paziente con la febbre a 38 o con un taglio sul dito, la signora che - forse, non è detto - si è slogata la caviglia. Il leggero mal di schiena che va avanti da un’ora, i crampi dopo il padel o il ginocchio che duole da un mese. Fino ai casi limite: la ragazzina che ha bevuto l’acqua di un bicchiere «dove erano stati posti dei fiori», la registrazione al triage per «caduta di capelli» e la signora che arriva in ambulanza (!) perché ha mangiato un cioccolatino e «per un attimo» ha avuto la sensazione di avere le vie aeree ostruite. È questa la realtà dei Pronto soccorso italiani, nei racconti dei sanitari che sempre più spesso si trovano a dover fronteggiare casi che di urgente non hanno nulla e dovrebbero essere gestiti dal medico di base, o magari... anche da nessuno, soltanto dal buonsenso.I dati di Agenas ci dicono che nel 2023, a fronte di 18,27 milioni di accessi nei Ps di tutta Italia, circa 4 milioni, cioè più del 20 per cento, sono stati classificati come «impropri», con codice di gravità bianco o verde. Per la maggior parte sono uomini tra 25 e 64 anni, che invece di ricorrere all’ospedale avrebbero dovuto trovare assistenza negli ambulatori del territorio. Peccato che nel nostro Paese, secondo i dati della Fimmg (la Federazione italiana medici di medicina generale) i cittadini senza dottore di famiglia siano già tra i tre e i quattro milioni: 234 mila nella sola Lombardia e, con i pensionamenti del 2025 e 2026, questi numeri potrebbero anche triplicare.

È il disastro perfetto, se consideriamo anche le sole tre ore al giorno di apertura dei loro ambulatori, i prefestivi durante i quali possono tranquillamente tenere chiusi gli studi perché il contratto lo consente (ma il prefestivo non è un feriale?), le difficoltà per raggiungerli anche solo al telefono, gli appuntamenti concessi dopo giorni di attesa e la burocrazia che li sovrasta. «Anche per questo a noi non piace parlare di “accessi inappropriati” al Pronto soccorso» puntualizza con Panorama Alessandro Riccardi, presidente di Simeu, Società italiana medicina di emergenza e urgenza. «I nostri reparti sono spesso l’unica risposta possibile al bisogno di salute degli italiani, e con questa definizione si finisce per colpevolizzare i cittadini. L’accesso è inappropriato solo a posteriori, perché dietro un codice verde può comunque celarsi qualcosa di grave. Ovvio che per banalità come febbre a poco più di 38, piccoli traumi ortopedici o mal di gola di stagione, si deve andare dal medico di famiglia, e non in ospedale, peggiorando l’affollamento e rischiando di attendere ore».A seconda delle «latitudini», i reparti di emergenza si trovano spesso a dover svolgere attività peculiari. «In Sicilia hanno un ruolo di welfare sociale» racconta Santo Bonanno, primario del Pronto soccorso dell’ospedale Garibaldi di Catania. «Gli esami costano sempre di più, le liste d’attesa sono lunghissime e quindi i pazienti vengono qui per fare ecografie, tac, esami del sangue. E noi siamo medici: non possiamo negare a nessuno l’assistenza». Si decide il Ps anche in base alla comodità, e questo vale dalla Sicilia alla Lombardia: se a Catania si sceglie il Garibaldi perché è in pieno centro e l’autobus ferma davanti all’ingresso, il Niguarda di Milano è apprezzato per il parcheggio grande, mentre il Fatebenefratelli di Roma è sull’Isola Tiberina, meglio di così! «Spesso l’afflusso è quello tipico di un supermercato, o di un ufficio pubblico: il lunedì mattina alle 11 c’è il pienone, si viene in ospedale come si andrebbe in banca, alle Poste o al discount» testimoniano i medici di un grande nosocomio dell’Italia centrale: reparti di emergenza ridotti a bancomat della salute, dove risolvere problemi non compresi altrove.

Ma si può continuare con questo utilizzo irresponsabile? Per quale motivo siamo diventati una società malata che ha paura della febbre a 38 e non riesce a gestire un mal di gola e, soprattutto, non comprende che precipitarsi in Pronto soccorso senza vera necessità nuoce gravemente alla salute degli altri? «Questo fenomeno si deve anche a una forma di nevrosi ipocondriaca, un’ansia cosiddetta “da contagio” che ha colpito la società occidentale» risponde Fabrizio Mignacca, psicologo e psicoterapeuta. «C’è ormai una tale imprevedibilità, un’insicurezza di fondo iniziata con gli attentati dei primi anni Duemila e culminata con il Covid, che ci ha resi profondamente insicuri e spaventati. Dopo la pandemia, tutto è diventato un’emergenza e spesso le campagne mediatiche - anche riguardo a nuove malattie o virus - fomentano queste nostre paure facendoci sempre rimanere in allarme per una possibile estinzione. Così, per qualsiasi sintomo, anche banale, ci sembra di avere chissà quale problema gravissimo e corriamo in Pronto soccorso». Spesso bypassando quella minima possibilità di riuscire a contattare il medico di famiglia: del quale magari non ci fidiamo nemmeno più di tanto, anche osservando la «povertà tecnologica» del suo ambulatori e la scarsa propensione a farsi carico tempestivamente dei nostri guai di salute. «Il problema è che la gran parte dei medici di base non visita “in urgenza”» afferma Daniele Coen, già primario di Pronto soccorso del Niguarda e autore del libro Corsia d’emergenza. La mia vita di medico in Pronto soccorso - appena uscito da Chiarelettere. «Gli appuntamenti sono sempre a distanza di giorni o anche di una settimana. I medici di famiglia ormai sono centrati solo su cronicità e problemi minori che riescono a sbrigare telefonicamente: la loro diagnostica strumentale è praticamente nulla, pochi hanno elettrocardiografo o ecografo. È un sistema anacronistico, che non riesce più a rispondere alle nuove esigenze di salute: finché questa situazione non cambierà, gran parte degli accessi impropri potrebbero certo essere evitati andando altrove, peccato che un altrove dove recarsi non ci siano».

Spesso poi i medici di base non assolvono nemmeno al compito di fare educazione sanitaria, ossia spiegare ai propri pazienti come fronteggiare i malanni più banali. «Recarsi in ospedale solo perché si ha la febbre alta è un errore» dice Emanuele Guglielmelli, dirigente medico di Pronto soccorso a Roma e membro di Simeu. «Innanzitutto perché si porta con sé un’infezione comunitaria - generata all’esterno -, esponendo tutte le persone che si trovano in reparto al contagio. Inoltre, per effetto del sovraffollamento si rischia di aspettare diverse ore e quindi di contrarre altre infezioni. L’ospedale, se ci vai quando non dovresti, è un rischio. Poi noi medici, se crediamo al giuramento di Ippocrate, dobbiamo comunque dare le cure a tutti: non possiamo permetterci di dire a nessuno “non dovevi venire”». Perché c’è anche il pericolo opposto: quello di chi sottostima e, davanti a un dolore del tutto nuovo o a strani sintomi, preferisce ricorrere al vecchio e pericolosissimo detto delle nonne: aspettiamo, tanto poi passa. Grave errore, perché molto spesso poi non scompare. «Ancora troppe persone ritardano l’accesso in Pronto soccorso pure davanti a sintomi importanti» conclude Coen. «Lo fanno anche perché sanno che nei reparti di emergenza ci sono attese infinite e quindi si scoraggiano: i dati dicono che per le “patologie tempo-dipendenti”, quelle la cui prognosi finale dipende dalla velocità dei soccorsi come infarto e ictus, c’è ancora un lasso temporale troppo lungo tra il sintomo e la decisione di recarsi in ospedale. In questi casi, si rischia la vita. Davanti a un dolore toracico o a un dolore addominale che perdura da ore o a qualunque alterazione neurologica occorre rivolgersi all’ospedale il prima possibile». Sperando, certo, di non trovarci poi in fila dietro decine di mal di gola, dolori al mignolo del piede o ingestione dell’acqua del vaso dei fiori: in quel caso, solo il triage dell’infermiere di turno potrà salvarci, per dirla con Franco Battiato, «dalle paure delle ipocondrie». Sempre ammesso che ci riesca