Se vuoi vivere devi sperare
Essere pronti alla nascita del nuovo, coltivare fiducia come «gravidanza di futuro». Un filosofo à la page ci scuote dall’angoscia, il male dell’Occidente. Pecca però di ingenuità politica. E trascura il senso religioso.
Nonna Speranza torna a farci visita con la scusa del Giubileo, a lei dedicato. La vecchia è sempre l’ultima a morire ma da troppo tempo non si vede più in giro. A lei era dedicato il celebre salotto dal poeta Guido Gozzano, di vecchie cose inutili, in disuso, un po’ kitsch. Ma la speranza è da lungo tempo bandita, non rientra negli orizzonti previsionali o negli algoritmi. La speranza è perduta da quando non si ha più fiducia in Dio e nella mano materna della Provvidenza; e da quando non si confida più nella storia e nella politica, nel futuro e nella rivoluzione. Chi si affida ancora alla speranza è considerato un meschino che si attacca a una flebile attesa di futuro; al sud, il tapino appeso a quell’esile filo era chiamato «speranzuolo».
Byung-chul Han, filosofo tedesco-coreano, è invece convinto che la speranza sia l’unico efficace antidoto «contro la società dell’angoscia» in cui siamo immersi e che dà il titolo alla sua nuova opera, edita da Einaudi. Con la freschezza ingenua di chi non proviene dalla stanchezza dell’Occidente cristiano, naufrago dalle speranze, il pensatore venuto da Seoul sforna un ennesimo, breve ma efficace libretto ed esorta a scommettere sulla speranza. Liberiamoci dalla pandemia dell’angoscia, dice Han, e dalla facile tendenza apocalittica; smettiamola di sopravvivere, riprendiamo ad aprirci agli altri, all’Altro. Angoscia e libertà si escludono a vicenda, l’angoscia è il preludio a una società prigioniera. Lo sosteneva già 60 anni fa il conservatore Salvador de Madiariaga nel saggio Dall’angoscia alla libertà. Sull’angoscia, sostiene Han, campano «le destre populiste e alimentano l’odio»; e il regime neoliberale «è il regime dell’angoscia». Il rimedio è la speranza, che è al di là dell’ottimismo e del pessimismo, fa «credito alla realtà», in cui ripone fiducia: «Solo nella speranza noi siamo in cammino. È lei a darci senso e orientamento». La speranza si collega all’amore ed è sempre rivolta al «noi», a differenza dall’angoscia che non genera comunità. Sperare significa essere pronti alla nascita del nuovo; sperare è una gravidanza di futuro, lo sostengo anch’io nel mio ultimo libro Senza eredi. Dobbiamo usare il perdono per il passato e la promessa per il futuro: Han usa categorie cristiane ma al di fuori di ogni contesto e senso religioso.
Qui, infatti, sta la fragilità del suo pensiero e la superficialità della sua osservazione. Han non si chiede da dove derivi l’angoscia e da cosa nasca la speranza, si limita a usare le due categorie in chiave psicologica e sociologica. Ma si può rimediare a un male solo se si individua l’origine, la causa. L’angoscia deriva dal nichilismo e dal relativismo, dalla perdita dei legami comunitari e del senso della vita: quei legami civili, sociali, religiosi, famigliari intorno a visioni della vita, significati e principi, comunitari e trascendenti. Quando denuncia l’uso politico dell’angoscia da parte della «destra populista», impropriamente considerata intercambiabile col «regime neoliberale», dovrebbe rovesciarne la sequenza: è la scristianizzazione, lo spirito radical-progressista, il nichilismo pratico e il relativismo soggettivo a generare quel vuoto e quell’angoscia, a cui quella «destra populista» tenta di dare una risposta. E su cui fonda il suo consenso: promette sicurezza, comunità, difesa dei confini e delle tradizioni, libertà e senso della realtà e della natura. Probabilmente quella risposta è insufficiente, inadeguata, ma non è la causa dell’angoscia, semmai l’effetto e il tentativo di reagire. Il problema è a monte, in chi e in cosa ha generato l’angoscia, la perdita del passato, il vuoto del presente, la paura del futuro, l’assenza dell’eterno. Sono stati spezzati tutti i fili che ci legavano al mondo, al tempo, alla storia e all’avvenire. E siamo piombati nella solitudine globale di massa. Tutto questo ha generato l’assenza di speranza, anzi di più: la sfiducia nella vita e in ciò che ci aspettiamo da essa. Ma per ripristinare la speranza devi coltivare il terreno da cui nasce.
Da tempo abbiamo voltato le spalle alla speranza nella storia. Dal principio speranza di Ernst Bloch siamo scivolati al principio disperazione di Gunther Anders; la teologia della speranza di Jurgen Moltmann si spense nell’angoscia di un’epoca che non vede spiragli oltre sé stessa e vive ripiegata nel presente. Ne scrissi in un saggio intitolato non a caso Dispera bene. È venuta meno non solo la speranza progressista che le cose possano cambiare ma si è persa pure la speranza conservatrice che le cose possano durare. Da lì sorge l’epoca dell’angoscia in cui viviamo: è curioso notare che questa definizione della nostra società sia stata applicata da Eric Dodds, e da una famosa mostra a Roma, alla tarda romanità del terzo secolo. Allora un mondo era tramontato, un altro non ancora sorto. E ora? Per superare l’angoscia non basta dunque ripristinare la parola speranza o l’utopia, appese al nulla: si tratta di darle un corpo, un’anima, una storia, un ritrovato senso dell’essere, non più smarrito nella foga del divenire e nell’angoscia di deperire, fino a scomparire. Anche la comunità, il noi, non è un semplice enunciato altruistico ma passa dai legami reali, carnali e spirituali, naturali e culturali in cui viviamo. Predisporsi alla nascita del nuovo significa aprirsi alla natalità e a un pensiero natale o neonato. Dopo Nonna Speranza nascerà sua nipote e porterà il suo nome.