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Il lato pericoloso dei videogame

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Tra una sparatoria online e una coccola al proprio cane virtuale ci si può imbattere nella medesima trappola. È una fregatura messa in atto da numerose aziende di videogiochi che, come denunciato recentemente dal Bureau Européen des Unions de Consommateurs (Beuc), adotterebbero pratiche commerciali sleali che influenzano milioni di consumatori europei. In che modo? Non facendo «percepire» ai consumatori l’ammontare dei soldi spesi durante il videogame a cui giocano, in quanto dentro di esso si utilizzano valute virtuali.

Ne sa qualcosa Edoardo M., 16 anni, che ci racconta come «senza che me ne accorgessi ho svuotato la carta di mia madre. Praticamente ero così preso dal cercare di avanzare nel gioco che ho speso circa settecento euro in tre ore. Quando ho compreso quello che avevo fatto, era troppo tardi». Il gioco di cui parla Edoardo è uno dei più gettonati fra quelli al centro della denuncia del Beuc. Si trova nella lunga lista dei gioielli prodotti dai colossi del mondo videoludico come Activision Blizzard, Electronic Arts, Epic Games, Mojang Studios, Roblox Corporation, Supercell e Ubisoft. Multinazionali che vendono i loro prodotti in tutto il mondo (spesso permettendo di scaricarli gratuitamente) e hanno miliardi di giocatori, nonché miliardi di fatturato. Tra Fortnite, EA Sports FC 24, Minecraft e Clash of Clans si parla di oltre 100 milioni di utenti. Un esempio? Fortnite, che registra il record di giovani giocatori, ha oltre 500 milioni di utenti registrati, mentre Clash of Clans è stato scaricato più di 500 milioni di volte e conta 70 milioni di giocatori attivi. I numeri relativi agli utenti fanno intuire il flusso di soldi: i dati più recenti in Usa risalgono al 2020 e attestano un business di oltre 50 miliardi di dollari.

In Europa non esistono al momento stime, ma - come nota l’organizzazione dei consumatori Altroconsumo - più della metà dei giocatori di questi game ha fra 11 e 14 anni (84 per cento del totale). Giovanissimi che, presi dalla foga del divertimento e dall’ambizione di vittoria, si ritrovano spesso a impiegare cifre significative in pochi giorni. Esattamente come accaduto a Gioele T., 13enne molisano che in una chat online di appassionati ammette di aver «fatto un buco nel conto di mia nonna di cinquemila euro. Lei non controllava, e io continuavo a comprare gemme (una sorta di valuta che ti permette di acquisire vantaggi sugli altri giocatori, senza dover aspettare il normale ma lunghissimo svolgimento del gioco, ndr). In realtà non mi sono reso conto di aver speso tanto, perché alla fine mi sono perso». Perdersi è la parola che viene usata più spesso dai giovani giocatori. Insieme all’incapacità di rendersi conto appieno le spese effettuate, perché questi giochi richiedono agli utenti, come spiegano da Altroconsumo, «di scambiare valuta reale con valuta premium in-game. Si tratta di monete, gemme o punti che poi potranno essere utilizzati in un secondo momento per acquistare contenuti digitali nel gioco. Tali valute riducono l’effetto pain-of-paying, ovvero la risposta emotiva negativa o il disagio che i consumatori sperimentano quando utilizzano i loro soldi per effettuare un acquisto». In pratica: quando i pagamenti sono effettuati con denaro reale, i consumatori provano un’avversione alla spesa. Al contrario, se utilizzano forme più astratte come carte fedeltà, buoni o crediti virtuali è probabile che il loro pain-of-paying diminuisca. «Le valute premium in-game sfruttano questo tratto comportamentale. Spesso poi sono venduti in pacchetti variabili: superiore è il costo del pacchetto, maggiore è lo sconto». Si tratta di complicatissimi labirinti in cui gli utenti non si raccapezzano. «Quando mia nonna mi ha chiesto cosa avessi fatto con i soldi che avevo preso dal suo conto» conclude Gioele, «mi sono sentito malissimo: credendo di giocare su una piattaforma gratis le avevo fatto fuori non so quante pensioni».

Emerge dunque chiaramente come, oltre alla questione economica, si palesi un danno psicologico. «Il problema» spiega Andrea Fagiolini, ordinario di psichiatria presso l’Universita di Siena, «è che nella nostra società la gratificazione deve essere immediata, e questo ha sostituito in modo particolare nei più giovani il piacere di costruire qualcosa nel tempo. Questa sensazione di ricompensa tempestiva stimola il sistema dopaminergico e alimenta comportamenti impulsivi, soprattutto nei ragazzi. A lungo termine, però, questi atteggiamenti possono contribuire a una conclamata dipendenza comportamentale, simile al gioco d’azzardo. In questo modo ci si abitua a cercare continuamente nuove ricompense, senza mai sviluppare un senso di soddisfazione duraturo». Insomma, ossessionati dal volere sempre di più, ma anche di dimostrare di valere qualcosa almeno in una dimensione virtuale, si entra in un vortice distruttivo in cui non ci si riesce a godere niente, ma allo stesso tempo si dipende in modo totalizzante dalle proprie pulsioni. «Ma non è tutto perché, abituati dalla soddisfazione immediata, questi ragazzi sono spinti a spendere soldi in modo compulsivo, senza riflettere sul valore effettivo degli acquisti e della fatica che c’è dietro al denaro che loro sperperano. Le conseguenze a lungo andare sono il progressivo isolamento e l’alienazione, ma anche ansia e insoddisfazione cronica», precisa Fagiolini, che ricopre anche la carica di direttore del Dipartimento di salute mentale sempre a Siena.

Il fenomeno - che è in crescita esponenziale, e spesso si giova di un vuoto normativo e fiscale - ultimamente è approdato in Parlamento attraverso diverse interrogazioni parlamentari, come quella presentata da Antonio Caso (Cinque stelle) che punta anche a «diffondere l’educazione al gaming in ambito scolastico e familiare». Perfino il Parlamento europeo se n’è interessato, adottando una risoluzione che sottolinea la necessità di una maggiore trasparenza negli acquisti in-game e di una migliore protezione dei consumatori, in particolare dei minori, dalle pratiche manipolative presenti nei videogiochi online.

«Per una volta la colpa non è degli algoritmi» spiega Walter Quattrociocchi, ordinario de La Sapienza di Roma, dove dirige il Center of Data Science and Complexity for Society (CDCS). «In questo caso è il comportamento umano a essere il fattore dominante. Molte dinamiche che osserviamo nel mercato videoludico si basano su aspetti fondamentali del nostro comportamento. Più che di ingegneria comportamentale, parlerei di un uso strategico delle nostre tendenze naturali, come il desiderio di ricompensa o il timore di perdere un’opportunità. Questi meccanismi non sono deterministici, ma amplificano inclinazioni che già esistono, il che spiega perché siano così efficaci». Evidentemente, al centro di tutto questo sistema ci sarebbero sofisticate forme di manipolazione psicologica. «Le conseguenze dei videogiochi sui ragazzi» evidenzia Ernesto Savona, direttore di Transcrime - Università Cattolica del Sacro Cuore, «dipendono da due fattori: la tipologia dei videogiochi e le vulnerabilità del ragazzo che li usa.

In certi casi il videogioco violento può sollecitare imitazione, ma in casi del tutto diversi può aiutare a scaricare le tensioni. Tutto dipende da chi guarda, che cosa e a che età lo guarda». Ed è per questo che una tutela e un controllo familiare diventa necessario. «Dobbiamo riflettere sull’attenzione che riusciamo a prestare al mondo che ci circonda, in termini sia quantitavi sia qualitativi», ragiona lo scrittore Yari Selvetella, da poco in libreria con La mezz’ora della verità (Mondadori, pagine 348, euro 20) in cui racconta le conseguenze tragicomiche di un’app capace di confermare o smentire la veridicità di ciò che le persone affermano. «Uno schermo sempre a portata di mano ci separa dalla realtà effettuale e invece ci mette a nostro agio in una “meta-realtà” fatta di suoni, colori, obiettivi da conquistare. Più il gioco è alienante, più è in grado di allontanarci dall’ambiente in cui si muove il nostro corpo, più ci avvince. La realtà è sullo sfondo, e così fa meno male». E allora quali sono le soluzioni? «Tante e tutte necessarie» conclude Fagiolini. «Riconoscere il problema, educare all’attesa, offrire supporto psicologico e costruire un forte tessuto sociale, familiare e scolastico sono i tasselli necessari per uscire dal lato nero dei videogame, che rischia di trasformarsi in epidemia».

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