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Bohemian Rhapsody compie 50 anni: la vera storia del capolavoro dei Queen

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Era The Cowboy Song uno dei titoli provvisori che Freddie Mercury aveva affibbiato a quella che era destinata negli anni a diventare la canzone pop più famosa di sempre. «La suggestione del Far West era probabilmente legata alla prima strofa. “Mama, just killed a man” rivela oggi il chitarrista dei Queen, Brian May.

Rimasero di stucco, cinquant’anni fa, i dirigenti delle EMI di Londra quando sulle loro scrivanie si materializzò una busta bianca contenente il test pressing del 45 giri destinato a promuovere A Night At The Opera, il nuovo album dei Queen. Sul lato B c’era un pezzo, I’m in love with my car, cantato per intero dal batterista Roger Taylor, mentre sul lato A una canzone di sei minuti, un enigma in musica che esordiva con un’intro a cappella, seguito da una rock ballad che sfociava in tripudio di cori operistici e poi in un lungo assolo di chitarra e ancora in una sezione pianoforte e voce di Mercury. Il tutto accompagnato da un testo enigmatico che il cantante non ha mai voluto spiegare, intriso di riferimenti surreali come Scaramouche, un personaggio clownesco degli spettacoli della commedia dell'arte del sedicesimo secolo; Bismillah, un termine presente nel Corano che significa “in nome di Allah”, e Belzebù, una divinità filistea, il principe dei demoni citato dai Vangeli. E poi ancora, Galileo, Figaro…

Nessuno, discografici, colleghi musicisti e responsabili delle strategie promozionali, ha saputo cogliere la portata rivoluzionaria di Bohemian Rapsody. Tutti convinti che mai e poi mai le radio avrebbero mandato in onda un pezzo così lungo, senza un ritornello che si ripete, con tutti quei cambi d’atmosfera e un testo astruso. A sparigliare le carte ci pensarono i Queen stessi con il loro manager, inviando una copia del 45 giri, ben prima che venisse pubblicato, al dj della BBC Kenny Everett che lo lanciò nell’etere ventotto volte in un weekend. Mai per intero, però, facendo ascoltare solo piccoli estratti del brano. La reazione degli ascoltatori fu esplosiva, la radio venne inondata di richieste: la gente voleva ascoltare la canzone dall’inizio alla fine. E così, sull’onda di un’impressionante “popular demand”, Bohemian Rhapsody approdò nei negozi. Oggi, dopo aver venduto dieci milioni di copie fisiche, è a quota un miliardo e ottocento milioni di ascolti in streaming e ha abbondantemente superato il miliardo di visualizzazioni su YouTube. La potenza evocativa di Bohemian Rhapsody è sì racchiusa nei solchi dello storico vinile, ma quello che l’ha resa immortale è l’esecuzione sul palco del Live Aid nel 1985, come si vede nel biopic-best seller omonimo: alle 18 e 40 del 13 luglio di quarant’anni fa, Mercury arriva in scena si siede al pianoforte e inizia a cantare: l’ovazione dei settantamila di Wembley rimbalza in tutta Londra ed entra nelle case di un miliardo di persone che seguono la diretta tv. È storia.

Era tutta nelle testa di Freddie Mercury, Bohemian Rhapsody, la somma di tre canzoni differenti (una scritta alla fine degli anni Sessanta quando il futuro leader dei Queen era uno studente di arti grafiche e design all’Ealing Art College di Londra), diventata un unico lampo di genio racchiuso in quindici fogli zeppi di appunti che il cantante aveva sempre con sé. Ci vollero dieci ore al giorno per quattro settimane e in quattro diverse sale d’incisione per arrivare al risultato finale. Rivoluzionaria la canzone e rivoluzionaria la tecnica utilizzata per registrare, un sistema a mosaico per cui Mercury e gli altri tre Queen incidevano fino allo sfinimento soltanto singole parti del pezzo. Il frontman sapeva esattamente a cosa puntava, ma gli altri del gruppo scoprirono com’era realmente la canzone solo dopo il montaggio finale delle singole sezioni.

Un lavoro pazzesco: Mercury, il chitarrista Brian May e il batterista Roger Taylor hanno sovrainciso 180 volte le loro voci per ottenere l’effetto corale. Per lo stesso motivo, Freddie, da solo, ha cantato in varie tonalità, per decine e decine di volte, le parole del testo “Mamma Mia, Galileo e Figaro”. Che oggi suonano così grazie a un lavoro in studio complicatissimo e senza precedenti, l’ideale prosecuzione delle meraviglie sonore immaginate dai Beatles otto anni prima, nel 1967, per registrare Sgt. Pepper’s agli Abbey Road di Londra. Racconta Brian May che i nastri utilizzati dai Queen per incidere la canzone avevano addirittura perso il colore originale ed erano diventati semi trasparenti per le decine e decine di incisioni impresse sopra. Altri tempi, quando le canzoni venivano scritte, pensate e realizzate come fatto artistico e senza “copia e incolla”…

Per dare forma a Bohemian Rhapsody, nella sua casa di Kensington, Mercury era solito sedersi davanti al suo adorato Yamaha Baby Grand Piano che non considerava un semplice strumento, ma un’estensione della sua creatività. Adesso è nella casa di qualche collezionista che per due milioni di euro lo ha acquistato in un’asta a Sotheby’s, sborsando qualche euro in più di quello che aveva speso George Michael per il piano Steinway utilizzato da John Lennon per comporre Imagine.


Il commento di Panorama.it