Il voto sul Jobs Act manda in tilt il Pd e divide la Schlein dal centrino di Ruffini
Alla fine il referendum promosso dalla Cgil contro il Jobs Act sta prendendo la piega più divertente. Sta spaccando la sinistra che l’ha voluto a tutti i costi e sta, al tempo stesso, azzerando qualunque possibilità di alleanza con il nucleo di quell’entità che dovrebbe essere il centrino promosso dal trio Paolo Gentiloni, Romano Prodi ed Ernesto Maria Ruffini. Abbiamo dunque la conferma che il luogo in cui si spaccano più spesso gli atomi non sono le centrali nucleari ma i movimenti politici pescati dalla cosiddetta società civile. Il punto però è un altro. Se la sinistra alla Schlein ha abolito i diritti sociali per battersi solo per i diritti civili (spesso del tutto avulsi dalla realtà), l’esperimento che ruota attorno a Ruffini si batterà al massimo per i diritti degli esattori fiscali.
Posto che la Cgil ultimamente ha dimostrato di far quasi nulla per le buste paga dei dipendenti, la domanda vera è: ma di occupazione e diritti dei lavoratori chi si occuperà nel centro sinistra? Ieri nell’arena del dibattito si è inserito l’ex renziano (era sottosegretario) Tommaso Nannicini . Il quale vanta il biglietto da visita di ideatore del Jobs Act. «Che credibilità può avere un partito che demonizza una riforma che ha fatto poco tempo fa con un leader votato da otto militanti su dieci?», si chiede Nannicini, riferendosi chiaramente al Pd. «Autorevoli dirigenti dell’attuale Pd guidato da Elly Schlein non solo hanno votato quella riforma, ma l’hanno elogiata in giro per le Feste dell’Unità». Ovviamente l’ex sottosegretario difende la sua creature ma mostra una grande onestà intellettuale ricordando alcuni passaggi critici per poi ricordare che il testo originario non esiste più. Il referendum della Cgil, infatti, non abroga il Jobs Act. Non tocca gli elementi fondamentali di quella riforma, dalla Naspi alle politiche attive, dalla stretta sulle false partite Iva alla cassa integrazione. Si limita a chiedere di abrogare un decreto che, nei fatti, non esiste più, perché una sentenza della Corte Costituzionale l’ha già stravolto. «È una discussione lunare», conclude Nannicini. «Anche perché, una volta abrogato quel decreto, si tornerebbe alla riforma del governo Monti del 2012, allora sostenuta dal Pd di Bersani, che aveva già ridotto l’articolo 18 all’ombra di sé stesso. Col risultato paradossale che l’indennizzo massimo in caso di licenziamento illegittimo passerebbe da 36 a 24 mesi». Noi riteniamo che i numeri dell’occupazione attuale si debbano proprio alla parziale abolizione del Jobs Act che può aver spezzettato le garanzie ma al tempo stesso ha creato nuove opportunità e flessibilità.
Certo non ci aspettiamo che siano i renziani ad ammetterlo, ma gli uomini della Leopolda, compreso l’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate, hanno ragione quando si chiedono che cosa vuole fare il Pd oggi. La sinistra al momento si limita a piangere lacrime di coccodrillo sul lavoro che ha contribuito a calpestare. È stata la sinistra, da Prodi a Renzi, a incentivare la precarietà. E più recentemente col salario minimo ha rischiato di far peggiorare gli stipendi e far crescere i licenziamenti. È stato il governo di Romano Prodi nel 1997 ad aprire al concetto di flessibilità, rompendo la rigidità dei contratti. Il «pacchetto Treu» approvato dalle Camere introdusse il Co.co.co (poi divenuto tale), il part time, la proroga e le figure chiamate atipiche. Quella legge, rilanciata però da Berlusconi, creò le agenzie interinali, peccato che oggi i servizi forniti dagli intermediari si fermino al 3% dell’offerta di lavoro. Per il semplice motivo che la sinistra non ha voluto correlare la flessibilità con la differenziazione degli stipendi. Così si è arrivati al 2011, quando Elsa Fornero, ministro del Lavoro di Monti, mise mano alla flessibilità in uscita. Stavolta venne eliminato l’obbligo di causale per i contratti a tempo e vennero riviste le norme riguardanti la reintegrazione. Passaggi che hanno portato poi al Jobs Act e alla recente battaglia per il salario minimo. Il tutto a braccetto della Cgil, il cui numero uno lo scorso maggio pontificava dal palco di Roma. «Il primo maggio si torni a parlare di lavoro e disarmo, si torni a investire sulla qualità della vita», esordiva Maurizio Landini, proprio mentre decideva di non far aderire la sua sigla allo sciopero nello stabilimento di Pomigliano.
Guarda caso proprio lo stesso dove opera Stellantis, l’azienda partecipata dagli Elkann che per mesi hanno smobilitato pezzetti di produzione, ma che editano il quotidiano che ogni settimana tira la volata al lato politico di Landini. Un dettaglio nel dettaglio, questo di Landini, che non cambia il panorama complessivo. Mentre il mondo del lavoro cambia, i partiti di sinistra usano la lotta pro lavoratori per fare politica pro eletti. Il risultato è che si perdono elettori e iscritti e si finisce per annegare nel lago artificiale che si è voluto creare. Così il referendum sul Jobs Act viene indetto per essere una spina nel fianco del governo e finisce con l’essere l’ennesimo dissidio interno che spezza i partiti in correnti e le coalizioni in bande di litiganti. Non è un bene per la democrazia. Non è un bene per l’alternanza.