Riduzione della seconda aliquota Irpef: dove sta la fregatura? Nel conseguente taglio dei servizi pubblici
Come in una scena di un film della commedia all’italiana, leggendo della proposta governativa di ridurre la seconda aliquota dell’Irpef mi è sorta spontanea una domanda: dove sta la fregatura? È abbastanza strano, infatti, che qualcuno ti prometta dei soldi senza nessuna contropartita. Ci deve essere sotto qualcosa di losco o di poco chiaro.
Dopo la crisi del Covid, questo è il terzo giro di riduzione dell’aliquota della principale imposta italiana. Ha cominciato Draghi riducendo le aliquote dell’Irpef da cinque a quattro, approfittando del modesto rimbalzo dell’economia. L’anno scorso ha continuato sulla stessa linea Meloni, riducendo le aliquote a tre. Oggi la proposta è quella di mantenerle, riducendo però la seconda. La proposta, con un costo di circa 5 miliardi, riguarderebbe qualche milione di italiani, le truppe del cosiddetto ceto medio. Quindi si può intravvedere una solida linea di continuità tra la tecnocrazia e la destra meloniana.
Il mancato gettito, o se si vuole, il risparmio annuale per gli italiani può essere quantificato in 15 miliardi di euro che quindi verranno a mancare allo stato. Un buco che ogni anno dovrà essere in qualche modo colmato.
E allora ecco l’imbroglio. Il taglio delle tasse dovrà essere compensato con un robusto taglio dei servizi pubblici. Taglio chiama taglio, anche perché dobbiamo rispettare gli impegni europei. L’astuzia dei politici consiste nel fatto che il cittadino è messo contro il contribuente, anche se spesso sono la stessa persona. Il cittadino vorrebbe servizi sempre migliori, con maggiori investimenti, mentre il contribuente non vorrebbe sostenerne il costo. Il risultato di questa dialettica perversa è abbastanza scontato, come insegna l’economia comportamentale. Siccome l’aumento in busta paga lo vedi subito, ma il taglio dei servizi rimane sullo sfondo, l’operazione risulta politicamente vantaggiosa almeno nel breve periodo. Il cittadino elettore viene illuso e gabbato dalle promesse del politico, di destra ma anche di sinistra, no tax.
Peraltro l’illusione può essere smascherata subito, come l’esperienza quotidiana ci dimostra. Nel mio piccolo ne ho fatto esperienza anch’io. Dovendo fare delle analisi radiologiche, mi sono sentito rispondere al telefono che in convenzione avrei dovuto aspettare tre mesi, mentre privatamente il posto era disponibile il giorno successivo. Non potendo aspettare, e siccome pagava l’assicurazione, ho fatto la scelta della struttura privata. Non sempre però si può attendere, ma soprattutto non tutti hanno il portafoglio disponibile.
Guardando ancora alla sanità, non vorrei che qualcuno avesse in mente il disastroso modello della sanità privata Usa dove circa 100 milioni di americani si indebitano per pagare le spese mediche, senza contare quelli che non si curano affatto. Diventeremo come gli Usa con un servizio sanitario privatizzato, caro e scadente per la maggior parte dei cittadini? Coloro che applaudono alla riduzione delle tasse dovrebbero spiegarci se è questo quello che vogliono. Se non lo fanno, sono disonesti. Un eguale ragionamento si potrebbe estendere a tutti i servizi pubblici che spesso sono carenti semplicemente perché scientemente sottofinanziati, per poi dire che non sono di qualità. L’imbroglio diventa allora manifesto e il cittadino-elettore non si può lamentare. Come si dice: mal che si vuole non duole.
Viene allora naturale comparare la stagione presente con quella passata. Il risultato è molto triste e deludente. Oggi, Salvini in testa, si procede per l’Irpef verso una mitica aliquota unica che non esiste in nessun paese sviluppato, e da noi è palesemente incostituzionale. Una vera assurdità economica, prima che sociale e giuridica. Ma cosa pensare allora dei politici che dopo profonde discussioni hanno realizzato la riforma dell’Irpef del 1973, con il ministro Visentini sugli scudi? I politici di allora oggi sarebbero uno scandalo, e sicuramente verrebbero insultati in qualche prezzolato e inutile talk show. L’Irpef del 1973 era un’imposta con 32 aliquote e con la massima del 72%. Erano dei folli?
No, erano sinceramente convinti di poter attuare l’art. 53 della Costituzione che prevede il criterio della progressività dell’imposta. Se poi tassiamo con un’aliquota del 72% i redditi più elevati, non dobbiamo avere preoccupazioni umanitarie. Stiamo togliendo del superfluo a coloro che, a valori attuali, hanno un reddito annuale superiore ai 4 milioni di euro. Allora prevaleva, nel sentire comune e in tutta la classe politica, un sentimento di umana solidarietà sociale, oggi non saprei dire quale sia il principio ispiratore. Comunque, nel corso di 50 anni l’aliquota massima è stata ridotta dal 72% al 43%. I ricchi possono ben dire di avere vinto, e abbastanza facilmente, la loro partita contro la società dell’eguaglianza.
Il ministro Visentini e gli altri protagonisti di quella stagione fiscale straordinaria erano forse esponenti della sinistra radicale? Non proprio. Il trevigiano e partigiano Bruno Visentini era un rappresentante di punta del Partito Repubblicano, quindi un sincero liberale e liberista. Il suo intento era solo quello di interpretare al meglio la Costituzione repubblicana. Se facciamo un confronto tra la classe politica di ieri e quella di oggi, tra Visentini e Salvini se vogliano stare sul campo fiscale, non si può che provare un senso di vergogna e di disagio per quello che si è perduto. Comunque non è detto che la bella stagione di ieri, seppure mutata, non possa ritornare. Per fare questo gli elettori devono stare molto attenti per evitare, se lo vogliono, le “fregature” dei politicanti di oggi, a cominciare da quelle fiscali.
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