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Muore Alberto Franceschini: fu uno dei fondatori delle Brigate Rosse

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È morto l’11 aprile a Milano, all’età di 77 anni, Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate Rosse. Tra i primi ad essere arrestati, processati e condannati, trascorse anni nelle carceri speciali prima di diventare uno dei primi dissociati dalla lotta armata. Liberato definitivamente all’inizio degli anni Novanta, fu autore di una delle prime autobiografie che raccontarono dall’interno la genesi del terrorismo in Italia. Negli ultimi anni, aveva sposato tesi sempre più dietrologiche sulla storia delle Br, in particolare sul caso Moro.

Nato a Reggio Emilia nel 1947, Franceschini rappresentava l’anima “post-resistenziale” del partito armato sorto nelle fabbriche del Nord. Cresciuto nella Federazione giovanile comunista e poi nel Pci, era stato educato ai racconti dei partigiani della sua terra, che tramandavano il mito della “rivoluzione tradita”, custodendo le armi nella speranza di una nuova insurrezione.

Quando nel 1970, dopo la rottura col Pci, decise di entrare in clandestinità per unirsi a Renato Curcio e Mara Cagol a Milano, un vecchio partigiano gli affidò la sua pistola, una Luger tedesca. Quell’arma riapparve nel marzo 1972 durante il primo sequestro-lampo delle Br: Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit Siemens, fu fotografato con un cartello al collo: “Mordi e fuggi, niente resterà impunito. Colpirne uno per educarne cento”, firmato con la stella a cinque punte. A puntargli contro la pistola era proprio Franceschini.

Due anni dopo, nell’aprile 1974, partecipò al sequestro del pubblico ministero Mario Sossi, che segnò l’irruzione delle Br sulla scena politica nazionale. Successivamente, fu inviato a Roma per pedinare Giulio Andreotti in vista di un possibile rapimento, ma a settembre fu arrestato insieme a Renato Curcio dai carabinieri del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, grazie alla soffiata dell’infiltrato “frate Mitra”.

Nel febbraio 1975 Curcio fu liberato da un commando guidato da Mara Cagol, ma Franceschini rimase in carcere. Da allora iniziò a interrogarsi sulle dinamiche dell’arresto e sulla mancata liberazione: dubbi che non si sarebbero mai sopiti, nemmeno dopo le spiegazioni fornite da Mario Moretti e altri compagni, che convinsero Curcio ma non lui.

Dietro le sbarre, Franceschini continuò inizialmente la militanza brigatista, aderendo anche alle posizioni più radicali del “Partito guerriglia” e vivendo tra Asinara e Badu ‘e Carros, protagonisti di rivolte carcerarie e delle loro dure repressioni. Solo a metà degli anni Ottanta si dissociò definitivamente dalla lotta armata, riconoscendo il fallimento del progetto rivoluzionario senza però collaborare con le autorità facendo nomi.

Raccontò la sua storia nel libro Mara, Renato e io, scritto con Pier Vittorio Buffa, e negli anni prese sempre più le distanze non solo dall’esperienza brigatista, ma anche dal racconto ufficiale dei suoi ex compagni. Avanzò sospetti sulla riorganizzazione delle Br dopo il suo arresto, sostenendo che la leadership fosse stata cambiata deliberatamente, e mise in discussione la gestione del sequestro Moro, affermando che “le dinamiche non sono quelle raccontate da Moretti e Morucci” e che non fu mai fatta piena chiarezza. Franceschini arrivò a ipotizzare che le Brigate Rosse fossero diventate strumento di altri poteri.

Un pezzo decisivo della sua vita, quello legato alla stagione della lotta armata, con cui non riuscì mai davvero a chiudere i conti.


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