“Il pronipote di Salgari”: indagine letteraria tra maledizioni familiari, solitudini esistenziali e ricerca di senso
A oltre un secolo dalla morte, Emilio Salgari rimane un “caso”. Tra gli scrittori più letti e prolifici (in circa trent’anni di attività scrisse almeno 80 romanzi e 150 racconti), non ebbe la ventura del riconoscimento in vita. La fama postuma risiede nella poderosa capacità di elaborare universi narrativi pervasi da atmosfere esotiche e avventurose, nel talento per la tessitura di trame avvincenti ricche di colpi di scena, nella creazione di personaggi memorabili come Sandokan, il Corsaro Nero, Yanez de Gomera, entrati nell’immaginario collettivo. In un’epoca di scarsa alfabetizzazione, la sua opera avvicinò alla lettura un pubblico vasto, e l’influenza avuta sulla letteratura italiana è stata ampia e stratificata.
La sua figura è però anche legata alla drammatica sequenza di eventi che ne ha segnato la stirpe, con una serie di morti violente e suicidi, a cominciare da lui stesso, che si tolse la vita l’11 aprile 1911 a colpi di rasoio. Ad aprire la tragedia familiare, il padre Luigi e lo zio Giovanni, gettatisi nel vuoto; proseguita con la moglie Ida Peruzzi, lanciatasi da una finestra dell’ospedale psichiatrico dov’era ricoverata; con il terzogenito Romero, che dopo aver tentato di accoppare moglie, cognata e figlioletto di due anni (Emilio junior, detto “Emilietto”) si buttò giù bendato da un terrazzo; la figlia Fahtima morì consunta dal “mal sottile”, il secondogenito perì dopo giorni di agonia in seguito ad un incidente automobilistico, e l’ultimo della prole, Omar (una cui intervista è visionabile nelle teche di Rai Storia), si lasciò andare nel vuoto dal balcone di casa. Infine (ma anche sulla morte di altri membri della famiglia sussistono varie versioni), il figlio di Emilietto, Romero junior, dunque pronipote dello scrittore, uccise una signora di settantadue anni, dopo essersi flagellato con un rasoio.
Non c’è da sorprendersi che si sia parlato di una “maledizione dei Salgari”, su cui più d’uno si è soffermato cercando di spiegarne le cause: eredità genetica e predisposizione familiare a disturbi mentali, peso psicologico di essere “figli d’arte” e confronto con la figura paterna, perpetue difficoltà economiche, trauma transgenerazionale iniziato con il suicidio di Emilio, e così via.
Questo oscuro segreto di famiglia – definiamolo, romanzescamente, così – è il nucleo da cui si dipana il libro di Massimiliano Governi, Il pronipote di Salgari (Baldini+Castoldi, pp. 304, 18 €). Giovanni, l’io narrante, è preda di una sorta di astenia esistenziale che non gli permette di stare dietro al lavoro di editor e ne paralizza la vena creativa: “La mia vita da un po’ di tempo è questa: fare ricerche, sopralluoghi, consultare archivi, abbozzare i romanzi che non porterò mai a termine”.
Individuo “sempre sul punto di scivolare in una solitudine aberrante”, predilige asserragliarsi nella sua “soffitta tappata, fredda, insonorizzata”. Un giorno s’imbatte in una notizia, “intercettata su Internet”: l’omicidio – perpetrato l’8 settembre del 1984 dal figlio di Emilietto Salgari, l’allora ventiquattrenne Romero junior – di Lucia Valsania, portalettere in pensione del paese dove vivevano entrambi, Montà d’Alba. Sono passati trentotto anni dall’evento, narrato con un incipit di taglio documentario: è la molla che smuove Giovanni, il quale, quasi suo malgrado, si lancia in una caccia ad un tempo pigra ed ossessiva di fatti, motivazioni, risvolti psicologici, in un passato che risale sino ad Emilio.
Deuteragonista è suo padre, noto giornalista, sparring partner con il quale egli è in fitto dialogo telefonico, in particolare su due argomenti: lo scrittore veronese e il suo universo narrativo (di cui il genitore è appassionato esperto), e la malattia, in ogni sua forma (fisica, mentale, dell’animo), vero nodo tematico del libro. Altra figura è una cronista, che ha intervistato telefonicamente Romero jr. ed è in contatto con lui, con cui Giovanni intreccia una corrispondenza per posta elettronica, nella speranza di avere delle risposte a domande tramite lei inviate al pronipote di Salgari. Voci, dunque, più che personaggi in carne e ossa.
La complicata ricerca procede in una “presa diretta” della realtà, con il puntiglioso annotare di eventi quotidiani, certosine descrizioni minimaliste in cui trovano posto minute vicende familiari del narratore, inframmezzate da riferimenti cinematografici e letterari, da brandelli di storie che aspettano di essere composte in un libro, legate al motivo della sparizione, del sottrarsi alla vita, delle scelte insondabili: la vicenda di Federico Caffè, celebre economista scomparso nel nulla, che abitava nel quartiere romano in cui risiede Giovanni, scandagliato con acribia filologica; lo scrittore Pitigrilli, ex delatore dell’Ovra, la polizia politica fascista, a cui si dovette l’arresto di scrittori e intellettuali (Carlo Levi, Massimo Mila, Vittorio Foa, il padre ed il fratello di Natalia Ginzburg, e diversi altri); Alighiero Noschese e Franco Lucentini, morti anch’essi suicidi, tema pervasivo cui il narratore si dichiara sensibile (“Sono ossessionato dai suicidi”). E ancora, un futuribile romanzo sul sequestro di Ezio Matacchioni, in cui fu implicato il neofascista Andrea Ghira, uno dei massacratori del “delitto del Circeo”, fatto di sangue che fece scalpore nell’Italia del 1975. È la sezione dall’andamento più propriamente romanzesco, nella quale Governi – la cui voce in taluni frangenti sembra sovrapporsi a quella dell’io narrante – racconta gli eventi dal punto di vista del sequestrato, un adolescente, denotando spiccate qualità narrative.
La qualità postmoderna del testo è anche evidente nelle notazioni metafinzionali (“Qui il narratore va avanti e riprende dalla scena della spiaggia”), nella mise en abyme del racconto nel racconto, con un altro personaggio “disturbato” (ve n’è una nutrita galleria, tra cui la madre di Giovanni, evocata dai mesti resoconti telefonici del padre), Enzo Carella, cantautore finito anch’egli in un nosocomio, ossessionato dai furti delle sue composizioni operati da un più noto collega, Lucio Dalla. Finzione e realtà sono dunque intrugliate, senza netti margini a definirle: “Sembra una scena inventata, invece è una scena veritiera”, commenta ad un certo punto, con piglio metaletterario, Giovanni. In ciò si segnala l’uso pervasivo del sogno, elemento d’indagine psicanalitica e campo narrativo privilegiato per le sue potenzialità visionarie.
In effetti, il racconto è strutturato come un’indagine letteraria che assume i contorni di un percorso introspettivo, motore di un’esplorazione più profonda, svolta con un incessante interrogarsi: “Perché sono qui? Perché mi sono ossessionato con questa storia?”. Uno scavo interiore dell’io narrante che si fa protagonista, punto d’irradiazione di svariate trame solo accennate, in una continua tenzone con presenze sfuggenti, fantasmatiche, a cominciare da Romero junior: “È come se si fosse rifiutato di entrare nelle mie pagine” prende sconsolatamente atto Giovanni. E a ben vedere, in gioco è anche la difficoltà della ricerca in quanto tale, storica, fattuale, sulle motivazioni degli atti umani. Indicativa la virtualità con cui viene portata avanti, per intermediazioni e tramite strumenti tecnologici (Internet, Google Street View, email, Facebook, biblioteche) e non mettendosi personalmente in gioco, andando sui luoghi e raccogliendo testimonianze dirette, come ad attestare la dematerializzazione dei rapporti umani, la solitudine esistenziale e la difficoltà di dialogo con l’altro da sé, che segnano come stigmate quasi tutti i “personaggi”. In scena è dunque un viaggio dolente teso all’esplorazione della condizione umana, intrapreso (forse) per caso, che non conduce in un alcun porto sicuro, com’è sempre nella letteratura di spessore. L’approdo, casomai, è la ricerca stessa, di senso dell’esistenza, di risonanze dell’umano sentire. Di più non ci è consentito, sembra dire Giovanni.
Ma il finale, che lasciamo al lettore, apre uno squarcio di luce. Con un colpo di coda l’universo immaginifico di Emilio Salgari si trasforma in un “gioco”, uno strumento che segna un ritorno alla vita, un’inaspettata rivincita dei mondi d’invenzione sulla sofferenza, sulla malattia, sulla prosaicità del vivere quotidiano che ci incatena. E il racconto si chiude con una suggestiva immagine poetica, e un’allusione – ci pare – alla Livella di Totò, artista splendidamente omaggiato dal padre dell’autore, Giancarlo Governi.
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