Cosa hanno insegnato 40 anni di «Perestrojka»
Che l’incarico di segretario del Partito comunista sovietico toccasse a Michail Gorbaciov non era in discussione. Era il ruolo che, di fatto, già esercitava quando Konstantin Cernenko era ancora vivo, sulla poltrona del numero uno della «nomenklatura» russa. Ma la liturgia del sinedrio rosso prevedeva il rispetto di riti inossidabili. Al plenum del Pcus (11 marzo 1985) gli interventi dei «grandi elettori» cominciarono alle 9,45 e - con un intervallo microscopico destinato alla corvée dei samovar con il tè nero - proseguirono per 11 ore. Ognuno - con l’enfasi di cui ciascuno era capace - tracciò l’identikit ideale per la nuova guida del partito ma solo con l’ultima dichiarazione venne pronunciato il nome del candidato che - essendo anche l’unico - non consentiva scelta.Nessuno di questi apparatchik poteva sospettare che quello appena nominato sarebbe stato l’ultimo segretario del Pcus e che - peggio - era destinato a scrivere il capitolo conclusivo dell’Unione Sovietica.
Gorbaciov veniva dalla scuola comunista di regime: laurea in giurisprudenza e in agricoltura, membro del Politburo e convinto di essere parte di quella superiorità morale che Mosca aveva sempre rivendicato. Però, a capo di delegazioni all’estero, si rese conto che il socialismo - quello di Lenin e Stalin - aveva il fiato corto rispetto al capitalismo - tanto detestato - che aveva una marcia in più. Occorreva cambiare: non per mandare a monte un’esperienza politica a cui continuava a credere, ma per aggiornarla al correre del tempo. Gorbaciov immaginò piccoli interventi sulle strutture che sembravano anchilosate e qualche aggiustamento «di facciata». Un restyling - alla fine - e nemmeno appariscente. I cambiamenti non avrebbero riguardato la sostanza della dottrina. Le innovazioni - anche se di poco conto - in quanto proposte dal vertice del Pcus, avrebbero avuto un impatto positivo. E, muovendo d’anticipo, si sarebbe evitato il rischio di essere obbligati ad accettarle sotto pressioni esterne.
Il primo atto riguardò la trasformazione della federazione dell’«Unione delle repubbliche socialiste sovietiche» in «Unione degli Stati sovrani» ognuno dei quali sarebbe diventato titolare di maggiori autonomie. Niente di che, a considerare l’elaborazione giuridica che venne fuori. Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Armenia e un’altra mezza dozzina di Stati - per il poco che veniva garantito, rispetto al quasi niente che c’era - accettarono la riforma. Ma, a dimostrazione che si trattava - davvero - di modifiche ininfluenti: i Paesi Baltici (Estonia, Lituania e Lettonia) non aderirono al progetto considerandolo e di nessuna garanzia. Gli altri non riuscirono a scegliere e, comunque, non risposero.
Persino peggio, il tentativo di interpretare in modo meno formale il proprio ruolo di apparatchik di vertice. A Leningrado (17 maggio 1985) concludendo l’assemblea con i membri del comitato cittadino comunista, Gorbaciov evitò le procedure paludate di un segretario che leggeva un paio di pagine scritte con buon anticipo e parlò improvvisando. In un ragionamento tutto proiettato al futuro da costruire, se ne uscì con una frase per invitare a rimodellare la propria attività tenendo conto delle esigenze di un tempo in evoluzione. Utilizzò il termine perestrojka che significava (e significa) «riorganizzazione» ma, nei resoconti, a questa espressione venne attribuito il valore assai più ampio - e, quasi rivoluzionario - di «ricostruzione» come se si trattasse di abbattere un vecchio palazzo per rimetterne in piedi uno nuovo e di diversa natura.
Analogamente (23 gennaio 1986) incontrando altri dirigenti del Pcus, invitò a non nascondere le difficoltà nella gestione della cosa pubblica. La gente, conoscendo la ragione dei provvedimenti, avrebbe accettato con maggiore accondiscendenza disposizioni e obblighi. Disse glasnost per intendere «in modo trasparente», diretto, senza macchinazioni né travisamenti. Anche a questo vocabolo aggiunsero contenuti che andavano oltre le intenzioni di Gorbaciov. Il quale, a quel punto, fu «costretto» a giocare un ruolo che non si era scelto ma che altri gli avevano cucito addosso.
Epperò quel percorso «aperturista» piacque al mondo occidentale. Il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan avviò con lui una serie di colloqui destinati a limitare la produzione di armi nucleari e a diminuire il potenziale degli arsenali già esistenti. Incontrò Giovanni Paolo II che era il capo della Chiesa ma che, per i comunisti, era il Papa «polacco» cioè figlio autorevole di una terra da sempre riottosa al potere di Mosca. E, progettando pace e fratellanza, come avrebbe potuto, Gorbaciov, continuare a combattere nell’inferno dell’Afghanistan?
Diede disposizione perché le truppe abbandonassero i territori occupati e, nonostante il parere contrario dei comandanti, volle anche che si facesse presto. La guerra cominciata nel 1979 (quando alla segreteria del Pcus c’era Leonid Breznev) era durata anche troppo. Il 15 febbraio 1989, il generale comandante Boris Gromov attraversò - a piedi, da solo e per ultimo - il ponte sul fiume Amu Darya che segnava il confine dello Stato dell’Asia. I vertici dell’esercito la considerarono una sconfitta e se la presero a male. Del resto, per la gran parte dell’oligarchia russa - rimasta legata a modelli di comunismo autoritario - Gorbaciovera diventato ingombrante. Questo presunto «nuovo corso», aveva umiliato la Grande Russia che aveva tenuto il mondo in soggezione. Per recuperare il ruolo di primi della classe, occorreva riportare indietro la lancette dell’orologio. Gorbaciov (19 agosto 1991) stava in Crimea per riordinare carte e pensieri, lontano dal Palazzo, in vista degli appuntamenti imminenti. Venne bloccato nella sua dacia e, per due giorni e mezzo, sembrò spacciato. I golpisti rappresentavano la quasi totalità della nomenclatura. Occupavano ruoli di vertice a cominciare dal capo dei servizi segreti Vladimir Krjuckov per arrivare al primo ministro Valentin Pavlov, al ministro della difesa Dimitrj Jazov e a quello degli interni Boris Pugo. Fra gli organizzatori del complotto, anche Valerij Boldin che era il segretario personale di Gorbaciov.
A Mosca, il vice presidente Gennadij Janaev fece irruzione negli uffici delle telecomunicazioni. I canali tv mandarono in onda le sue dichiarazioni per giustificare quell’azione di forza come necessaria per contrastare le iniziative scellerate di un segretario di partito inadeguato.
L’annuncio a reti unificate ebbe un effetto dirompente. Anziché tranquillizzare la gente, la allarmò, con il risultato che folle sempre più numerose scesero in piazza. E, più che manifestare a favore di Gorbaciov, lo fecero contro i golpisti. Cortei spontanei un po’ ovunque ma, soprattutto, a Mosca e Leningrado.
I soldati, disobbedendo agli ordini, rifiutarono di sparare sui manifestanti. Anzi, un assalto alla Duma, il parlamento a Mosca, programmato dal Kgb, venne annullato quando le truppe disertarono. Un’unità di carri armati si voltò di 180 gradi ponendosi a difesa del Palazzo, puntando i cannoni verso l’esterno. Sui cingoli di un blindato, si arrampicò Boris Eltsin, che del Parlamento era presidente. Arringò la gente che gli stava intorno, incitandola a resistere al putsch e a difendere quel barlume di libertà che si stava prospettando. In quei giorni, sembrò che il vincitore fosse proprio Eltsin che, uscendo dal confronto come un gigante, firmò una serie di decreti esecutivi che misero fuorilegge il comunismo e la bandiera con falce e martello. A Mosca e in tutta la Russia, si alzarono i drappi con i colori rosso, bianco e azzurro.
Eppure si trattò di apparenza. Perché i giorni dei trionfatori si esaurirono in fretta e, giusto per limitarsi al solo vertice, dopo la stagione eltsianiana il ruolo di guida passò a Vladimir Putin che, formalmente, non accennò al ritorno al comunismo ma, in pratica, trovò il modo di applicarne gli strumenti per ottenere il consenso fino alle estreme conseguenze. «Democrazia», «apertura» e «trasparenza» non vennero cancellate dal vocabolario ma - lì - rimasero come espressioni letterarie buone per estrosi poeti in vena di costruzioni liriche. Il che significa che le prospettive deigolpisti - pur sconfitti sul piano individuale - trovarono più che rapida applicazione. L’autoritarismo di cui avevano nostalgia ritornò a farse sentire con prepotenza. L’età di Gorbaciov si era già chiusa. n
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