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Al posto di una scuola a misura di allievo, un ambiente che decade con lui

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Chi ha voglia di progresso – umano, scientifico, sociale eccetera – non può che considerare centrale il ruolo della scuola. Certo, contano la distribuzione della ricchezza, la forbice fra chi ha accesso a tutto e chi a niente, la rosa delle opportunità e l’inclusione nelle reti di relazioni tengono in piedi la società. Tanti nodi di quelle reti si chiamano “scuola”; se quei nodi non funzionano come dovrebbero, tutta la società entra in sofferenza.

Con altre parole, era esattamente questo che pensavo poco più di cinquant’anni fa quando, insieme a una pattuglia di giovani insegnanti cominciai a lavorare nella scuola elementare a Tempo Pieno, armati della consapevolezza che uguaglianza, riscatto sociale e giustizia sono il prodotto di processi collettivi che richiedono conoscenza, spirito critico, sete di sapere, voglia di confronto. Da soli non si va lontano, si respirava questo nell’aria del tempo. La scuola a Tempo Pieno era ancora in formazione – in gestazione anche le 150 ore dei lavoratori per la licenza media –, frutto di un fermento che voleva coniugare la spinta al rinnovamento della didattica con il bisogno di ri/costruire un terreno di incontro fra le persone dopo lo sradicamento dell’immigrazione di massa. Come? Portando il tempo-scuola a 40 ore, includendovi anche il pasto e il gioco e le esercitazioni, introducendo la pratica dei laboratori (il tâtonnement di Freinet), del lavoro per gruppi (molto più tardi cooperative learning), con le biblioteche di classe, senza il voto per ogni prestazione (almeno per i più piccoli). Fra i palazzoni delle periferie sono nate scuole capaci di tenere testa allo sradicamento e al disorientamento sociale, costruendo una nuova cultura dell’apprendere e dell’insegnare.

Allora, c’erano le classi “differenziali”, ci venivano mandati gli allievi con deficit fisico, cognitivo, sociale. Tanti ci finivano perché comunicavano solo in dialetto, o venivano da famiglie afflitte da una povertà generale, i nuovi immigrati del tempo. Chi entrava in una classe speciale, difficilmente tornava nella scuola “normale”: finiva lì il corso di studi dell’obbligo e la frequenza alla differenziale restava annotata sulla pagella. Nel ‘75 tutto questo finì: la classi differenziali vennero abolite, gli allievi inseriti nelle classi “normali”, i loro insegnanti destinati al sostegno. Una prima vittoria.

L’allievo svantaggiato trae maggiore giovamento a stare coi coetanei piuttosto che languire in classi che raccolgono il distillato della sfiga con un effetto moltiplicatore dell’esclusione. Ogni individuo ha le sue strade per arrivare ad apprendere ciò che gli serve per stare al mondo. Poiché la condizione materiale, il milieu sociale e famigliare ne determinano in larga parte la storia, compito della scuola è lavorare per rimuovere le barriere che impediscono a ogni bambino di essere se stesso e di dispiegare al meglio le sue potenzialità, mostrandogli le strade e percorrendole con lui/lei. Deve poter diventare l’adulto migliore possibile, quindi va accompagnato, stimolato e integrato coi coetanei per costruire il successo scolastico, e non solo, attraverso la pratica della cooperazione. Conseguenza di allora: scuole private in calo, meglio la pubblica anche per le famiglie dei ragazzi più dotati.

Cinquant’anni dopo il mondo è cambiato, la scuola registra gli effetti dell’individualismo ed è finita ai margini nella considerazione sociale, più di quanto non lo sia mai stata. Dirigenti ignavi, con poche idee e tante paure, a giustificare la marea di disposizioni insensate riversate su personale e famiglie. Insegnanti demotivati e incoraggiati all’uniformità, così arrivano tranquilli alla pensione; chi non si adegua si trova contro per primi i colleghi. Famiglie che, avendo avvertito la fragilità del sistema, non si oppongono più ai genitori bulli, perché ormai incapaci di pretendere qualità dell’istruzione, rigore, comprensione, professionalità.

La scuola d’oggi galleggia sui PDP (Piano Didattico Personalizzato): uno strumento pensato in origine per individuare misure utili al benessere di allievi ai quali era stato riconosciuto un qualche deficit, nell’attenzione, nella concentrazione, nell’apprendimento. Gli specialisti (generalmente neuropsichiatri) diagnosticano il DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento), scuola e famiglia stipulano una specie di patto contenente le misure compensative (esempio la calcolatrice) o dispensative (es. riduzione quantità di esercizi nei compiti in classe), a cui i docenti debbono attenersi anche quando valutano. Una buona cosa, dunque, solo che sempre più spesso viene trasformata in “sindacalismo genitoriale”.

I servizi territoriali sono oberati di richieste, quindi fiorisce il mercato dei professionisti che rilasciano privatamente la certificazione al posto del pubblico. Risultato: classi piene di allievi con PDP, famiglie felici (è meglio il PDP del vecchio, “suo figlio non si applica”) pronte ad estrarlo dal fodero come una rivoltella se solo il pargolo fatica un po’, docenti rinunciatari per non distruggersi vita e carriera. Al posto di una scuola a misura di allievo – con percorsi personalizzati così tutti ricevono gli strumenti e i contenuti del sapere -, un ambiente che decade con lui, che riduce progressivamente le aspettative. Sempre meno punti di incontro capaci di rendere l’esperienza del rapporto educativo la più potente possibile. Fioriscono le scuole paritarie e private.

La competitività esasperata, manifestazione dell’ideologia del “merito”, genera le giustificazioni “medicalizzate” per ottenere ciò che nella scuola di un tempo era il normale per ogni insegnante: fare attenzione a chi ha di fronte. La scommessa è tornare a insegnare la competizione con se stessi e la cooperazione con gli altri. Il mondo si cambia anche così.

L'articolo Al posto di una scuola a misura di allievo, un ambiente che decade con lui proviene da Il Fatto Quotidiano.