Il rapimento a Sarajevo e il riscatto di 1.500 euro pagato dal fratello che vive a Trieste: la storia del migrante 26enne pakistano
Un migrante pakistano è stato rapito a Sarajevo, mentre stava cercando di raggiungere l’Italia dopo cinque anni di viaggio tra l’Asia e l’Europa. Gli uomini che lo hanno tenuto rinchiuso per un paio di giorni hanno chiamato il fratello, che abita a Trieste, e si sono fatti spedire il riscatto. Non una cifra enorme, 1.500 euro, ma significativa di un fenomeno che si va estendo. Sulla “rotta dei Balcani” non ci sono solo i passeur che lucrano sui migranti, ci sono anche loro connazionali che conoscono il territorio e le città e alla prima occasione fermano uno di quei disperati, sottoponendolo a un vero sequestro di persona. Chi è fortunato e ha un parente con una disponibilità economica riesce a cavarsela.
La storia è stata raccontata da Martin Poljsak, un giornalista triestino del quotidiano in lingua slovena Primorski dnevnik. In piena notte è stato svegliato da una telefonata. “Devi pagare, altrimenti picchiamo tuo fratello”. La voce arrivava da un appartamento a qualche chilometro di distanza dal centro storico della capitale bosniaca. Il tono era perentorio. La persona aveva un coltello e una pistola ed era pronta ad usare le armi se dall’Italia non fosse arrivato il riscatto. “Non mi è rimasta altra scelta che pagare. Il giorno stesso ho inviato i soldi tramite il sistema Western Union da Trieste a un uomo sconosciuto in Grecia. Per fortuna il contatto era attendibile e mio fratello è stato rilasciato” racconta un ventiquattrenne che vive nel rione di San Giacomo a Trieste. Il fratello, che nel frattempo è riuscito ad arrivare in Italia, ha 26 anni: “Erano mafiosi, mafiosi pakistani. Se mio fratello non avesse pagato, mi avrebbero ucciso”.
Il suo racconto è drammatico. “Ero a Sarajevo da un paio di settimane. Giravo per la città cercando un modo per proseguire il viaggio, quando il 24 dicembre uno sconosciuto mi ha contattato. Mi ha invitato nel suo appartamento su una collina, nella periferia di Sarajevo”. Ci è andato assieme a un amico. Era atteso da un gruppo di giovani connazionali. “Quello che mi aveva chiamato era un ‘agent’, un trafficante di esseri umani. Ha detto che poteva farmi arrivare in Croazia. Ho avuto subito un brutto presentimento e ho rifiutato l’offerta, dicendogli che avrei chiesto aiuto a qualcun altro per proseguire il viaggio”. Così se ne era andato, ma era stato richiamato al telefono dopo un paio d’ore. Allettato da una cena e un letto dove dormire, aveva accettato. Ma era caduto in trappola.
Lo hanno svegliato in piena notte. “Tu non cercherai nessun altro, saremo noi a organizzare il tuo viaggio per la Croazia” gli hanno urlato quelli che ormai erano diventati i suoi carcerieri. Uno di loro ha estratto una pistola, lo ha picchiato. Il pakistano è stato indotto a chiamare il fratello in Italia, l’unica persona in grado di aiutarlo. “All’inizio pensava che stessi scherzando, ma quando ha capito che ero in grave pericolo, ha pagato”. In un solo giorno, quando c’è stata la prova che il versamento era andato a buon fine, è tornato libero. La sua fortuna è stata che il fratello abita ormai stabilmente nel capoluogo giuliano, dove era arrivato da minore non accompagnato. Ha un lavoro e quindi è stato in grado di versare i 1.500 euro. “A volte l’unica speranza per la liberazione di un rapito è la famiglia nel paese d’origine, che deve procurarsi il denaro indebitandosi o vendendo qualcosa di valore”. Si tratta di situazioni complicate, che richiedono più tempo.
Scampato al pericolo, il ventiseienne è passato per la Croazia, poi ha cercato di raggiungere la Slovenia, ma è stato fermato dalla polizia mentre attraversava il confine. È stato interrogato, ha raccontato del rapimento, gli hanno anche mostrato le foto di alcuni sospetti passeur. Alla fine è stato trasferito in un centro per richiedenti asilo a Lubiana. Dopo alcuni giorni è fuggito, ha raggiunto Capodistria dove è riuscito a ottenere un passaggio in un “taxi”, così vengono chiamati i mezzi dei trafficanti che effettuano i passaggi di confine. Si è concluso per lui, che ha alle spalle una laurea in economia e gli studi islamici, un viaggio cominciato cinque anni fa in Pakistan, durante il quale ha incontrato trafficanti di tutti i tipi e ha lavorato per otto mesi in una fabbrica tessile in Turchia, con uno stipendio mensile di 40 euro.
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