ru24.pro
World News in Italian
Февраль
2025
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24
25
26
27
28

Comprendere la complessità del mondo: geopolitica, storia e il ritorno della realtà oltre le illusioni occidentali

0

di Antonio Salvati

Viviamo in un tempo difficile contrassegnato dall’incertezza. Per comprendere le novità e le incertezze di questo momento di crisi è necessario ragionare in termini di “complessità”. Hannah Arendt affermava che «non l’Uomo ma gli uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra». 

Occorre generare un pensiero nuovo, cioè un pensiero del contesto e del complesso. Un pensiero del contesto – direbbe il filosofo Mauro Cerruti – capace di pensare in termini planetari la politica, l’economia, la demografia, l’ecologia, la salute, la salvaguardia dei “beni comuni” e della pace. Un pensiero del complesso capace di collegare ciò che è disgiunto e settoriale, i saperi frammentati e chiusi nello specialismo, che rispetti il diverso pur riconoscendo l’uno, che tenti di discernere le interdipendenze. Abbiamo bisogno di chiavi lettura rinnovate. Lucio Caracciolo ci invita ad affidarci all’analisi geopolitica «nel senso più ampio del termine. Dunque metodo pratico per orientare le nostre decisioni alla realtà, che si tratti di allocare un investimento, negoziare un accordo, scegliere o sciogliere un’alleanza. Ora che le relazioni di potere sono sempre meno orientate dalle regole e più influenzate dai rapporti di forza, la geopolitica può aiutare a orientarsi in questa giungla».

Dario Fabbri – per anni in forza presso Limes, il più noto periodico di geopolitica in Italia, creata da Caracciolo, dove ha costruito la sua prima fama – è da tempo un analista delle questioni geopolitiche assai ascoltato. Frequentemente rivendica l’applicazione corretta della geopolitica classica, teorizzata tra ‘800 e ‘900, in grado di comprendere appieno la complessità dei fenomeni storici e, soprattutto, dei fatti attuali. Fabbri sostiene che non sarebbero i grandi personaggi e i più noti condottieri a spiegare i momenti cruciali nelle varie epoche storiche, ma al contrario sarebbe l’affermazione dello spirito e della volontà dei popoli a darci un’interpretazione autentica dei fatti. Nel volume Geopolitica umana. Capire il mondo dalle civiltà antiche alle potenze odierne, uscito nel 2023 per l’Editore Gribaudo, Fabbri sosteneva che le analisi storiche dovrebbero avvalersi di una visione che sia il più multidisciplinare possibile e che privilegi la comprensione delle strutture di fondo della geopolitica, mettendo in secondo piano aprioristiche sovrastrutture ideologiche.

Nella sua ultima fatica Sotto la pelle del mondo (Feltrinelli 2024, pp. 224 € 19) siamo di fronte ad una preziosa lettura meno superficiale del nostro tempo e della vita umana in generale. Del resto, non riconosciamo il mondo che abitiamo divenuto «improvvisamente spaventoso, impossibile da leggere nel suo muovere». L’impressione che guerre e altre crisi si susseguano senza sosta, con puntuale asimmetria. Da qui due corollari confliggenti, dunque identici. «La tenera speranza che questa fase sia incubo da cui ci desteremo per tornare alla nostra intronata e dolcissima routine. Oppure, il terrore di scivolare verso l’apocalisse, nucleare o financo ambientale. Ineffabile choc prodotto dall’aver creduto vero l’impossibile, in assenza di strumenti per decrittare la realtà». Per decenni ci ripetevano all’infinito che la storia era finita, «sostituita dalla fissità degli scambi commerciali, dalla preminenza dell’economia, dalla superiorità morale di alcuni umani (ovviamente occidentali)».

Con noialtri ben contenti di smettere di studiare la storia, o meglio «le storie, espunte senza nostalgie dai nostri libri di testo, se non per alcune screziature leaderistiche o materiali, tra la romanzata aneddotica di re e condottieri e gli irrilevanti sviluppi commerciali». Quindi, la storia conta. Ma attenzione a distinguere la forma esteriore dal nucleo delle questioni. Spesso consideriamo decisivo l’irrilevante, trascurando ciò che veramente conta nelle vicende umane. In questo senso, la “pelle del mondo” va intesa come l’impalcatura leaderistica, politica ed economica che alle nostre latitudini e in tutto il cosiddetto Occidente allargato (ovvero, essenzialmente, negli Stati sottoposti all’impero statunitense) viene considerato prioritario. Anche per via dell’invecchiamento anagrafico delle popolazioni, specialmente europee, e per la consolidata opinione secondo la quale il nostro tempo avrebbe espulso la guerra e la contesa tra i popoli dalla storia. In realtà, tanti popoli continuano a battersi per la propria sopravvivenza e non solo. Specialmente in quel “resto del mondo”, “Sud globale” o “mondo contro”, che costituisce la parte maggioritaria del nostro pianeta. Ci piaccia o meno. Pertanto, è necessario sfuggire a ciò che il nostro tempo e il nostro contesto reputa importante, per calarsi nella complessità. E nel dolore. Tornare alla storia, alla geografia, all’etnografia, alla proto-linguistica.

Allo studio dei popoli, dei sentimenti e delle psicologie collettive. Con una nuova consapevolezza, ossia che «da tempo si è esaurito il complesso d’inferiorità verso l’Occidente, conseguenza del dominio incontestato sul mondo delle potenze euroamericane negli ultimi cinque secoli. Nel resto del pianeta le guerre sono continuate incessantemente, accese da sentimenti: odio, desiderio, sopraffazione, conquista. Assai raramente da interesse». Bisogna ridimensionare l’enfasi elettoralista – quante volte abbiamo ripetuto l’anno scorso “voteranno miliardi di persone” – ancora una volta soltanto nostra, «ma sventolata come planetaria, metonimia in spregio della contemporaneità. Gran parte degli esseri umani non celebra regolari elezioni oppure si esprime nelle urne in sintonia con l’etnia o la tribù di appartenenza, mai per ragionamento individualistico, bollato inammissibile. L’esito elettorale non influisce sulle vicende, se non come conseguenza di mutamenti antropologici o contestuali già avvenuti o in fieri, di cui l’analista deve possedere precedente contezza. Ritorno della realtà impossibile da inibire, neppure con le fole che solitamente usiamo per stordirci».

Spenno non vogliamo intendere che le elezioni politiche che si svolgono nel mondo non occidentale non sono espressione di cittadinanza, ma di gruppi etnici o clan di riferimento. Spartendo le diverse zone di influenza. In Occidente, in realtà, attestano quanto già avvenuto. Più che un cataclisma, le elezioni politiche sono una sosta di sismografo registrante ciò che è già presente. E nessun leader – a detta di Fabbri – ha realmente importanza, se non esprime pulsioni e desideri della propria collettività di riferimento. Discorso vero per la Russia. Ritenendo Putin l’unico artefice del suo attuale momento: «Dovremmo mandare a memoria: nessun individuo produce una moltitudine. Vero il contrario. È la Russia a figliare i suoi capi, non questi a generarla». Una considerazione che meriterebbe un convegno o una pubblicazione a parte.

Sotto la pelle del mondo niente è come appare. Così Erdogan, al pari di Netanyahu, evidenziano – che ci piaccia o no – quanto accade in Turchia e in Israele, insieme con tutte le contraddizioni, le vicissitudini e, frequentemente, gli orrori che essi sviluppano. Proprio, in relazione ad Israele e alla Turchia è necessario considerare l’importanza dell’impronta etnica che riguarda tanto gli Stati nazionali, quanto gli Imperi.

Oggi Israele, sia pure fondata da laici di formazione europea, «deve la crescita demografica ai cittadini di ascendenza mediorientale, spesso coloni, cui si aggiungono gli ultraortodossi. Divenuti maggioranza e reclamanti il potere. Rovesciamento antropologico: il futuro d’Israele sarà deciso dai ceppi giunti dopo l’indipendenza o che rifiuta(va)no il sionismo. Estranei al disegno dei padri fondatori, a lungo emarginati dall’élite di tradizione europea, con la Torah (הרות) come massima fonte di conoscenza e giurisprudenza, contrari alla tutela delle minoranze, incuranti della nostra opinione. Per loro volontà, nei prossimi anni Israele potrebbe rinnegare la matrice europea, abiurare la divisione tra Stato e rabbinato, collocare la religione sopra il diritto civile, annettere (parzialmente) la Cisgiordania, mitopoietica terra dei padri. Non sarà più massimalista perché eternamente in guerra, potrebbe diventare post-occidentale». Palingenesi contro cui è schierato il paese originario, puntellato dagli apparati, consapevole della sua debolezza demografica. «Il sionismo fu fenomeno profondamente europeo. Teorizzato dall’ungherese germanofono Theodor Herzl in piena esaltazione romantica, per offrire agli ebrei della diaspora la medesima indipendenza centrata da italiani o greci, in nome dell’autodeterminazione. Nei suoi fogli, una nazione vecchia/nuova conversante nell’alto tedesco, nel frattempo divenuto lingua ufficiale del Reich guglielmino. Non in ebraico, idioma abbandonato da millenni nell’uso quotidiano, da Herzl ritenuto impossibile da disseppellire. “È necessario fondare uno Stato evoluto, dove il nostro popolo possa vivere soltanto del suo lavoro, scongiurando ogni tendenza teocratica, tenendo i rabbini nelle sinagoghe come teniamo i soldati nelle caserme”, stabilì nel 1896, prima di coniare (involontariamente) il nome della metropoli nazionale, Tel Aviv, “Collina di primavera” nell’antica lingua semitica (ביבא ־לת), poi costruita secondo dettami geometrici dell’ultrasassone Bauhaus».

Portatori di ideali rivoluzionari e socialisti, tipicamente occidentali, i primi sionisti vollero obliterare gli stereotipi dei gentili forgiando un nuovo ebreo. Non più imbelle, timorato di Dio, occupato soltanto nel commercio. Ma dedito alla coltivazione della terra, spudoratamente agnostico, incline a fare la guerra.

Il volume termina con un capitolo impietoso dedicato all’Italia il cui incipit così recita: «L’Italia manca degli strumenti necessari a capire il pianeta, il nostro tempo. Resta in fideistica attesa degli eventi, senza idea di cosa aspettarsi. Paese più anziano degli altri, assieme al Giappone, ha creduto e crede che tutto sia finito, che davvero economia o leader si impongano sulle cose». Con una popolazione sempre più anziana e scarsamente abituata a vedere il mondo nella sua violenza e nella sua interezza.

Oppure desiderosa solo di restarne fuori. Esercizio che, anno dopo anno, si rivela del tutto impossibile. Il risveglio dalla bolla della fine della storia è traumatico. Come il non occuparci della scomparsa del nostro Sud, con «sette milioni di abitanti in meno nei prossimi quarant’anni, con la proposta di autonomia differenziata che incoraggia i giovani meridionali a trasferirsi ulteriormente al Nord – chissà se ne è cosciente chi la sostiene per recintare le regioni settentrionali. Né dell’estensione fino a Cagliari della zona economica esclusiva dell’Algeria». Tantomeno della nostra assenza geopolitica, militare, finanziaria sulle coste dirimpetto alle nostre, inaggirabile dimensione della strategia. In clima da pace dei sensi, non riconosciamo insidie. Sapremo uscire dal nostro torpore? Nell’epoca delle relazioni virtuali, torna prepotente la centralità del corpo. O siamo presenti fisicamente in questo tornante della storia o non saremo ascoltati, resteremo irrilevanti. Non si può più ragionare nei termini con cui si ragionava in passato. Nello stesso tempo c’è bisogno di cultura storica, secondo l’indicazione preziosa di Andrea Riccardi. Perché se è vero che non è un dogma che la storia sia magistra vitae, è altrettanto vero che oggi spesso ci aggiriamo nella storia come gattini ciechi, senza sapere cosa sia successo prima, ma anche a quello che sta per succedere. Pensiamo alla guerra e alla riabilitazione della cultura del conflitto. Sta morendo la generazione che ha vissuto la Seconda guerra mondiale, i testimoni della Shoah, ed eccoci davanti a un mondo che sta smarrendo la cultura della pace.

L'articolo Comprendere la complessità del mondo: geopolitica, storia e il ritorno della realtà oltre le illusioni occidentali proviene da Globalist.it.