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L’erede, l’implacabile thriller del regista francese Xavier Legrand tra Amleto e Prisoners

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“Ho fatto di tutto per non essere come lui”. Difficile rintracciare un macigno di colpe paterne così ottundente come in L’erede del regista francese Xavier Legrand (L’affido). Qualcosa di così simbolicamente perturbante, e allo stesso tempo di formalmente ineccepibile, per raccontare l’inevitabile caduta psicofisica di Ellias Barnes (Marc-André Grondin), stilista d’alta moda parigina all’apice del successo (e della successione rispetto al suo mentore professionale), di fronte all’improvvisa morte a Montreal in Canada del lontano, mai frequentato, oscuro padre. Il segnale di sinistro ritorno alle origini è un’avvisaglia sul corpo di Ellias che sembra un principio di infarto ma che sa solo di ansia conclamata. Il risucchio familiare da oltreoceano è in atto.

Obtorto collo Ellias si recherà nell’innevato Quebec per sistemare scartoffie e formalità del funerale senza perdere inutile tempo. Ma nell’intento di liberare rapidamente la casa da mobilio e suppellettili pronti per la beneficienza, Ellias si troverà di fronte ad una porta chiusa che dà su una cantina e pochi gradini più sotto, nascosta dietro a un pesante frigorifero, su un’altra ulteriore misteriosa porta serrata con un grande chiavistello. Immerso in un’atmosfera di soffocamento polanskiano e titillato da uno stordimento tra incubo e reale modello fratelli D’Innocenzo, L’erede è prima di ogni altra questione un thriller implacabile di pregiata fattura strutturato attorno ad una appiccicosa inafferrabile spirale che avvolge e stritola il protagonista, incapace di reagire al peso di una colpa paterna che diventa ad ogni istante che scorre sempre più impossibile da spazzare via, sovrapponendosi addirittura come un inequivocabile sudario addirittura fonetico (Ellias torna a parlare con l’accento del Quebec).

L’aspetto profondo ancestrale della tragedia, sostanzialmente edipica, anche se l’eco shakespeariana dell’Amleto occhieggia nella sequenza della madre lontana disinteressata e risposata con il cognato, è tutto giocato sul piano, appunto, del simbolico. Piano che nel film di Legrand agisce più in maniera prescrittiva ed ideologica, quasi che fosse necessario supportare politicamente ciò che già la messa in scena espone visivamente e narrativamente con implacabile franchezza. Del resto non aspettatevi fiammeggianti frantumazioni di relazioni familiari alla Xavier Dolan, ma qualcosa di più vicino ad un Prisoners sempre di un altro canadese come Denis Villeneuve.

L’erede è prima di tutto un esempio compiuto di cinema di genere, con un paio di jump scare che valgono più di mezzo biglietto e un’ineluttabile fragilità e disfacimento del protagonista che sembra di stare in qualche film simil horror anni settanta. Curioso il riferimento, durante uno scambio di battute tra Ellias e una ex compagna di scuola ora dipendente delle pompe funebri, alla passione del protagonista per la cantante francese Mylene Farmer, ambigua, trasgressiva e scandalosa cantautrice di origine canadese degli anni novanta. Tratto dal romanzo L’ascendant di Alexandre Postal (in Italia pubblicato da Minimum Fax con il titolo La gabbia e dove il protagonista vende telefoni cellulari) e co-prodotto dal figlio di Costa Gavras, Alexandre.

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