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Tutto il mondo è spettatore: così Andrea Tagliapietra usa il teatro per parlare di società

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Fra le metafore elaborate dalla cultura occidentale, pochissime si sono rivelate pervasive e durevoli quanto quella del theatrum mundi. Ne ho già parlato in un precedente post a proposito di un saggio del sociologo americano Richard Sennett, che rilancia l’analisi della vita quotidiana come intessuta di azioni (performance) e rappresentazioni messe in scena dagli individui in quanto attori sociali.

Il libro di oggi, che ha come autore uno storico della filosofia (Il lettore e lo spettatore. Due metafore dell’esistenza, Donzelli, 2024, di Andrea Tagliapietra), si serve della metafora teatrale per scopi opposti, in sostanza. E cioè per evidenziare l’imporsi progressivo, nella modernità, non dell’attore ma dello spettatore, da intendersi come una modalità dell’esistenza, la figura emblematica di un mondo concepito (alla Guy Debord) come un ininterrotto “spettacolo”, al quale non si può fare altro che assistere in maniera passiva e al fondo disinteressata, senza un reale coinvolgimento intellettuale e sentimentale, per catastrofico o apocalittico che esso sia. Anzi, quanto più esso è catastrofico e apocalittico.

Il volume si apre con l’analisi di un dipinto del 1960 di Edward Hopper, People in the Sun, e si chiude con una tela di Francesco Guardi, del 1789, Incendio dei depositi degli olii a San Marcuola. Ad accomunarli c’è il fatto di mettere in scena appunto degli spettatori, visti lateralmente, seduti, in Hopper, mostrati in piedi e di spalle da Guardi. Nel secondo dipinto essi assistono al rovinoso incendio che, nel novembre 1789, produsse la distruzione di più di sessanta case della contrada veneziana di San Marcuola. Nell’olio su tela di Hopper, invece, non sappiamo che cosa stiano guardando quelle persone elegantemente vestite e sedute su comode sedie con lo schienale reclinato, né il titolo lo chiarisce. In ogni caso, si tratta di un qualcosa che sta oltre i confini del quadro, quindi letteralmente osceno, irrappresentabile. Ma in quest’opera troviamo anche, seduto in seconda fila, un individuo intento in un’attività del tutto diversa: quella della lettura.

Dunque un lettore in mezzo a degli spettatori. Quanto basta a Tagliapietra per fare di questa tela il punto di partenza perfetto di un’indagine affascinante, anche se a tratti faticosa, su queste due figure emblematiche e sui loro destini nella storia occidentale, dall’antichità ad oggi, in quanto coesistenti ma opposte metafore dell’esistenza.

La ricerca si nutre di una foltissima letteratura, in prevalenza filosofica, ma il suo punto di forza sta nel ricco corpus di immagini che forniscono il materiale primario. E se i capitoli dedicati al lettore, e alle trasformazioni che lo riguardano fra evo antico e moderno con l’affermarsi della lettura silenziosa, risultano interessanti e spesso avvincenti, la vera posta in gioco del denso saggio sta nell’argomentazione, fra testi teorici e documenti iconografici, di come la figura dello spettatore s’imponga progressivamente su quella del lettore.

In questa “elaborazione moderna della forma simbolica dello spettatore” il teatro vero e proprio ha un ruolo e non potrebbe essere diversamente. Secondo l’autore, fra XVI e XVII secolo esso imbocca risolutamente la strada dello “spettacolo”: “L’operazione consiste, allora, nel ridurre la portata metamorfica dell’originario teatro di Dioniso, nel cui alveo era nata la tragedia greca, trasformandolo da un qualcosa che si vive a un qualcosa che si vede” (p. 219).

Naturalmente qui il riferimento è al Nietzsche della Nascita della tragedia, anche laddove il filosofo definisce “sconosciuto” ai Greci il personaggio che affollava i teatri e le sale da concerto del XIX secolo: “lo spettatore trascendentale […] frutto della proiezione nell’orizzonte della vita e dell’immanenza mondana del personaggio dello spettatore trascendente, onnisciente e onnipotente”, cioè Dio (p. 220).

Complice la disumanizzazione dei rapporti interpersonali prodotta dal capitalismo, “a partire dal Settecento […] i sentimenti sono l’esteriorizzazione e la spettacolarizzazione delle emozioni” (p. 272). All’uomo moderno non resta altro che diventare uno spettatore distaccato, anche di se stesso e della propria vita interiore.
La chiusa (forse troppo sbrigativa) è tuttavia su una nota di speranza, affidata alla resistenza della figura del lettore, “protagonista anarchico e antieroico di una rivoluzione futura, di una liberazione che ancora ci attende” (p. 292).

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