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Dietro il «marchio d'infamia» del Movimento Sociale

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Trent’anni fa, il 27 gennaio 1995, a Fiuggi, nacque il partito nuovo della destra, Alleanza nazionale, sulle ceneri del vecchio Movimento sociale italiano. Fu necessario dare origine a un evento costituente, per superare gli ultimi retaggi che ancora legavano l’Msi, Movimento sociale italiano, all’esperienza e ai valori del fascismo e della Repubblica sociale. Fu Gianfranco Fini a guidare la « svolta di Fiuggi», che permise alla destra nazionale, finalmente, di costituzionalizzarsi, ossia di legittimarsi da un punto di vista democratico, divenendo forza di governo. Per inciso, va ascritto a merito storico di Silvio Berlusconi, l’aver traghettato gli ormai ex missini dentro le massime istituzioni, superando il truffaldino «arco costituzionale» che perpetuava una conventio ad excludendum nei confronti del partito-ghetto della Fiamma, i cui voti in Parlamento erano inutilizzabili. Fini poi esagerò, nel finale della sua stagione politica, abbracciando il politicamente corretto e dichiarandosi «antifascista». Giorgia Meloni, da questo punto di vista, è stata molto più accorta, evitando di cadere nella trappola preferita dagli intellettuali di sinistra, quelli che col dito alzato, vanno a chiedere, a chiunque militi a destra e conti qualcosa: «Lei è antifascista?».

La presidente del Consiglio si è smarcata in modo perfetto, dichiarando il fascismo come un’esperienza storica non riproducibile, e dunque mettendo in soffitta nonno Benito, senza per questo sputare all’indietro. La Meloni ha semplicemente affermato, con altre parole, ciò che i missini avevano sempre sostenuto, con il motto «non rinnegare non restaurare». In verità l’Msi fu sempre una formazione politica ibrida, dentro la quale convivevano neofascisti, come Pino Rauti, e l’anima più postfascista, rappresentata da Pino Romualdi, che sposò le tesi atlantiche e lo schieramento occidentale dell’Italia. I mezzo ai due, si collocava il leader storico dei partito, Giorgio Almirante, il quale esercitava un moto pendolare, tra le due tendenze, anche se, dagli anni Ottanta del secolo scorso, andò a collocarsi in una linea che ricercava una legittimazione politica per la Fiamma tricolore. A impedire la costituzionalizzazione del Movimento, per cinquant’anni, fu il ricatto dell’antifascismo militante, che pose il Partito comunista alla testa di una sorta di tribunale della moderna inquisizione che certificava il grado di democraticità delle forze politiche sulla base dei loro meriti nella Resistenza. Il Pci fu incluso perciò nell’arco costituzionale, in quanto si auto-attribuiva il ruolo di baluardo della democrazia e della libertà, per la sua leadership nella lotta di Liberazione. Una bugia storica colossale, perché il partito di Togliatti, se fosse andato al potere, nel Dopoguerra, in posizione egemonica, avrebbe importato in Italia un regime di stampo sovietico.

Quest’anno, ricorre anche un altro significativo anniversario: i 65 anni dalla traumatica esperienza del governo Tambroni, ossia l’ultimo ministero, a guida democristiana, che si resse in Parlamento sui voti missini. Val la pena di rievocare l’episodio, perché illustra in modo limpido quale fu il ricatto esercitato dal Partito comunista sull’arco delle forze politiche: quello dell’antifascismo. Fernando Tambroni, ex ministro dell’Interno, fu chiamato, nel marzo del 1960, dal presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, a formare un gabinetto di emergenza, senza una maggioranza precostituita, al culmine di una crisi istituzionale senza precedenti.

Tambroni era un esponente della sinistra democristiana, vicinissimo all’inquilino del Colle. Nel febbraio precedente, il ministero guidato da Antonio Segni si era dimesso. Dopo un incarico esplorativo affidato a Giovanni Leone, un fallito tentativo di Segni, e una rinuncia preventiva di Attilio Piccioni, si dovette registrare che, in pratica, non vi era alcuna possibilità di formare una coalizione, per i veti incrociati tra i partiti, e per le divergenze interne alla stessa Dc, il cui ex segretario, Amintore Fanfani, all’inizio del ’59, si era dimesso da premier, di fronte all’impossibilità di costituire un esecutivo di centrosinistra, con l’ingresso del Partito socialista nella stanza dei bottoni.

Liberali e monarchici non erano disposti a votare a favore di un nuovo ministero, temendo che lo scudocrociato volesse svoltare a sinistra, e gli storici alleati dei democristiani, repubblicani e socialdemocratici, attendevano che questi abbracciassero il Psi. La Chiesa cattolica e la Confindustria osteggiavano, per motivi diversi, l’apertura a sinistra. Di fronte alla prospettiva di un’interruzione traumatica della legislatura, Gronchi, con una scelta personale, affidò a Tambroni l’incarico di formare un governo monocolore democristiano che avrebbe dovuto cercare sostegni in Parlamento. Il nuovo gabinetto giurò il 26 marzo 1960.Tambroni, alla Camera, tenne un discorso, in cui evidenziò tutto il contrario di ciò che i socialisti si attendevano: il programma di uno scialbo governo-ponte. Delineò invece, a sorpresa, il profilo di un esecutivo di ampio respiro. Alla fine, gli unici voti favorevoli non concordati, cioè privi di contropartite, che Tambroni ricevette, furono quelli missini, i quali risultarono determinanti: 300 sì contro 293 no. Il Paese piombò nel caos, per la deliberata strategia insurrezionale orchestrata dal Pci di Togliatti per spazzare via il «clerico-fascismo». Il presidente del Consiglio si dimise e Gronchi incaricò Fanfani di formare un governo di centrosinistra, ma anche questo tentativo fallì. Allora, sempre con un’iniziativa personale, il Capo dello Stato rinviò alle Camere Tambroni per completare l’iter della fiducia.

Incassato anche il voto favorevole del Senato, bisognava, per il Pci e per i socialisti, trovare un casus belli per rovesciare il governo. Il Movimento sociale aveva in programma di celebrare il proprio Congresso, ai primi di luglio del 1960, a Genova. Fu montato un caso politico: il capoluogo ligure, medaglia d’oro della Resistenza, non avrebbe dovuto assolutamente ospitare un tale evento. Venne inventata, di sana pianta, anche una falsa notizia: il Congresso del Msi avrebbe dovuto essere presieduto dal famigerato Carlo Emanuele Basile, prefetto del capoluogo ligure ai tempi della Repubblica sociale italiana. Si susseguirono, a Genova, manifestazioni antifasciste. Il 28 giugno, Sandro Pertini tenne un discorso invocando, sulla base della Costituzione, lo scioglimento del Msi. Due giorni più tardi, la città venne presa d’assalto da una folla di manifestanti, al cui interno vi era una forte presenza organizzata di facinorosi reclutati dal Pci, dall’Anpi, dal sindacato rosso. Quando il corteo, fino a quel momento ordinato, ripiegò, da via XX Settembre, su piazza De Ferrari, si scatenò la guerriglia urbana.

I reparti celeri di Pubblica sicurezza, motorizzati, avevano ricevuto l’ordine di non sparare, e si limitarono a difendersi dalle violenze dei dimostranti, alla testa dei quali vi erano i lavoratori portuali, i «camalli», che scagliarono sulla polizia frammenti di lastroni divelti dalla pavimentazione stradale, lanciarono bottiglie Molotov e tegole dai tetti e ferirono decine di agenti ricorrendo anche a micidiali ganci a uncino. Tentarono perfino di affogare un poliziotto nella grande vasca di piazza De Ferrari. Gli organizzatori dei tumulti avevano pianificato tutto fin nei minimi dettagli: guanti di gomma furono distribuiti, ai capisquadra degli insorti, per raccogliere i candelotti lacrimogeni. Inoltre, per impedire alle forze dell’ordine di identificare i manifestanti rimasti feriti, fu evitato il loro trasporto negli ospedali. La regia dei moti provvide a far circolare un servizio di pronto soccorso volante, su lambrette e vespe, con cassette dei medicinali. Solo per un miracolo, non ci scappò il morto.

Vittime ci furono invece, 12, nei giorni seguenti, tra i manifestanti, a Reggio Emilia e in Sicilia. Il 6 luglio, a Porta San Paolo, a Roma, una protesta antifascista venne caricata dalla polizia, e rimasero feriti alcuni deputati. Tambroni, alla fine, fu costretto a dimettersi, il 19 luglio.Il Pci aveva vinto nelle piazze e l’Italia, con Fanfani, ebbe il suo primo governo di centrosinistra.

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