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Vino senza alcol, quale può essere il suo futuro

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Troppo impegnati a rivestire di ragioni commendevoli un’esiziale esigenza di sopravvivenza, gli industriali della bottiglia non ammetteranno mai che faranno diventare il vino triste, togliendogli anima e spirito, perché hanno le cantine piene. In Italia - al netto dei grandi rossi come Brunello, Barolo o Chianti Classico che hanno affinamenti che durano anni in botti di legno - attualmente sono stoccati 42,4 milioni di ettolitri di vino. Più o meno la quantità ricavata nella vendemmia che si è da poco chiusa e che ha riconsegnato - attenzione: non vale quasi nulla - il primato mondiale produttivo alle nostre vigne. Solo che quel vino non si vende e quindi la via d’uscita può essere il NoLo, inteso come «no alcohol» o «low alcohol» per dirlo all’americana che suona meglio). Il Prosecco è il più stoccato: 4,2 milioni di ettolitri. Sono 5,6 miliardi di bottiglie! Spannometricamente per smaltirle ci vogliono qualcosa come otto anni. Ma nessuno dirà mai che la richiesta di tradire il vino, togliendogli il valore identitario e culturale insieme all’alcol, è prima di tutto l’effetto di un mal governo del settore negli anni del boom senza limiti. L’elenco delle giacenze dimostra che in Italia ci sono troppe «Doc», alcune disegnate solo per clientela politica, che le indicazioni geografiche sono raffazzonate e che, restringendosi i consumi, il mercato si è spezzato: da una parte ci sono i vini-opera d’arte, dall’altra c’è una marea di prodotto che non si sa più a chi vendere, anche per il ridotto potere di acquisto.
Nasce perciò la necessità di trovare altri sbocchi commerciali per evitare il fallimento di un comparto troppo abituato a classifiche, premi, feste, iniziative di marketing per avere voglia di fare una seria analisi della propria fragilità. In Francia la situazione è pesante: sono state estirpati 30 mila ettari di vigne, con una spesa pubblica di 120 milioni di euro, per far fronte alla sovrapproduzione. «Siamo sotto attacco» riflette Riccardo Cotarella, l’enologo più famoso d’Italia, presidente mondiale dei tecnici che fanno i vini «perché le iniziative dell’Oms e della stessa Europa che indicano, sbagliando, nel vino il veicolo dell’alcolismo hanno creato ormai terrorismo nei consumatori. E poi siamo nel mirino perché chi vende energy drink e altri intrugli anche alcolici non molla la presa sui giovani, mentre in Italia siamo penalizzati anche per le rigidità del nuovo Codice della strada. Noi enologi abbiamo risposto rilanciando l’iniziativa “Portami a casa”. Così chi ordina vino al ristorante, se non consuma tutta la bottiglia, può prenderla con sé. Ugualmente stiamo insistendo per chiarire che il vino, se bevuto con moderazione, è salutare». Sono innumerevoli gli studi clinici che sottolineano come una dose moderata di vino protegga il sistema cardiovascolare e non pregiudichi assolutamente l’aspettativa di vita, uguale o addirittura più lunga rispetto a chi non beve. Eppure negli Stati Uniti Vivek Murthy, il Surgeon General, cioè l’uomo che sovraintende alla salute e che Donald Trump si accinge a sostituire, ha chiesto al Congresso di etichettare tutti gli alcolici, vino compreso, come cancerogeni. La pensa così anche l’Organizzazione mondiale della sanità - secondo contributore è Bill Gates che, casualmente, detiene il 4 per cento di Heineken e spinge per la birra dealcolata -, la pensa così l’Europa che ha autorizzato - tradendo ogni trattato comunitario - l’Irlanda a etichettare il vino con scritte antitumore.
E proprio dall’Europa è venuto il primo e più esteso via libera al vino dealcolato che, insieme alle estirpazioni, è considerato lo strumento per tamponare la crisi del vino. Una crisi che è anche generazionale, perché i giovani gli hanno voltato le spalle almeno negli Stati Uniti e nel Nord Europa. Sostiene Donatella Cinelli Colombini, che ha inventato il Movimento turismo del vino e fa un ottino Brunello, «non abbiamo protetto il vino e non ne abbiamo comunicato bene il valore culturale e identitario, oggi i giovani cercano lo sballo e si orientano su bibite alla cannabis, ci sono colossi del settore dell’alcol come Constellation - che in Italia è proprietaria delle cantine Ruffino - che sono entrati nel capitale di Canopy Growth, il massimo produttore di cannabis e realizza bibite alla canapa». Lo stesso vale per gli energy drink, che sono bombe per la salute dei ragazzi, ma di questo nessuno parla. Sarà perché la Red Bull da sola fattura come tutto il vino italiano? Resta che si è pensato che produrre vini senza alcol sia una strada. Francesco Lollobrigida, ministro per la Sovranità alimentare, aveva promesso entro fine 2024 il decreto e così è stato. In Italia si possono produrre i vini a zero alcol o parzialmente dealcolati, purché gli impianti siano diversi dalla cantina e non si aggiunga nulla nel vino. Non si possono dealcolare Doc, Docg e Igt. Per il direttore generale di Unione italiana vini Paolo Castelletti «finalmente ci viene data la possibilità di esplorare questo mercato che ci apre le porte non solo al recupero dei giovani, ma anche ai Paesi arabi e a una fetta consistente di nuovi consumatori. Si è stimato - la ricerca è dell’istituto Swg - che circa il 36 per cento dei consumatori sono disposti a provare i dealcolati».
Per ora però siamo alla nicchia. Negli Stati Uniti è un mercato che vale un miliardo di dollari, in Italia non si andrebbe oltre il milione di consumatori. Si dice che il raffronto possibile è con la birra senza alcol, anche se il paragone è azzardato. Come si legge nel rapporto Assobirra, i numeri della «birra zero» in Italia dicono che «nel 2023 ha rappresentato l’1,86 per cento dei consumi totali della bevanda, con un aumento del 4,5 per cento rispetto all’anno precedente». Uno studio del 2023 realizzato da Areté, azienda specializzata nel mercato agroalimentare, stima in 7,5 miliardi di euro il mercato complessivo in Europa con il vino che vale 322 milioni e ha in Francia, Spagna, Germania e Belgio i principali mercati. Secondo Sandro Boscaini, presidente di Masi Agricola, Mister Amarone, «i dealcolati sono un’opportunità ed è certo meglio che restino in mano ai produttori di vini che ad altri, ma non vanno assolutamente confusi con la bevanda “completa”. Vanno protetti l’immagine, la qualità, l’essenza, il valore e i valori dei nostri grandi vini tenendo ben distinte le due cose. A partire dal nome». Nessun vignaiolo di grande qualità farà un prodotto dealcolato. Anche perché ottenerlo costa molto e ne servono enormi quantità. I più facili da fare sono gli spumanti a cui mal che vada si fa come con l’acqua minerale e si aggiunge un po’ d’anidride carbonica. E fra un po’ ci venderanno i vini privi di alcol, ma biodinamici, spiegandoci che è tutto assolutamente naturale. Perché lo richiede il mercato.