Hit Ball, uno sport nato nelle scuole di Torino ci racconta un’esperienza distante dalle burocrazie
di Marco Pozzi
Si è detto che la Fifa, la Fédération Internationale de Football Association, sia oggi l’ultima grande strumento di colonizzazione europea verso il mondo, poiché europei sono stati tutti i suoi presidenti (anche il brasiliano João Havelange era di origine belga), e include 211 federazioni nazionali, più dei 193 stati appartenenti alle Nazioni Unite; si legge che il Cio, il Comitato Olimpico Internazionale, come “non-profit organisation” fra il 2017 e il 2021 ha avuto entrate di 7,6 miliardi di Usd.
Le federazioni organizzano le competizioni, stabiliscono le regole, giudicano i fatti; le loro sigle risuonano sui giornali: impossibile ormai scindere lo sport della rispettiva federazione. Eppure, esistono ancora sport giovani, senza una storia decennale sulla schiena, per i quali l’attività si genera spontaneamente dagli appassionati, che costruiscono ogni giorno la storia di quello sport, praticandolo, discutendone, raccontandolo agli amici. Una delle esperienze più significative è l’hit ball, nato nelle palestre scolastiche di Torino negli anni ‘70 e cresciuto fino a raggiungere Chivasso, Genova, Asti, Voghera e sempre più città. Ne ho parlato con l’amico Francesco Rigoni, giocatore della Sinombre, che ha condotto in radio una bella puntata di approfondimento.
L’hit ball è nato per iniziativa di Luigi Gigante, professore di educazione fisica nella scuola media Gramsci a Settimo Torinese. Siamo nel 1978, in un progetto sperimentale che vuole offrire agli studenti un’alternativa al calcio: il nuovo gioco si svolge in palestra, cinque contro cinque, senza contatto, con un pallone morbido, tipo pallone elastico, ma più grande, che può rimbalzare sulle pareti e sul soffitto; lo scopo è segnare (non “gol”, ma “hit”) nella porta avversaria, formata da una traversa soltanto, all’inizio segnata col nastro bianco/rosso dei cantieri; le azioni durano al massimo cinque secondi, non si trattiene palla, la si colpisce solo con le mani protette da bracciali imbottiti; la partita ha tre tempi di quindici minuti, con due pause di cinque. È una via di mezzo tra pallamano e pallone elastico, da principio variante della “baraonda”, giocato in ginocchio per evitare il contatto fisico fra ragazzi particolarmente esuberanti.
Questo sport funziona e i ragazzi lo giocano anche fuori dalla scuola; lo sport si evolve. Dal dicembre 1978 si gioca in piedi; nel 1986 lo si brevetta, con le specifiche del campo e dell’attrezzatura; nel 1989 si costituisce la prima società sportiva e si organizzano le prime competizioni, i primi tornei nelle scuole Palazzeschi e Alberti, in vari giorni della settimana; nel 1992 si costituisce la Federazione Italiana Hit Ball e nell’anno successivo parte il primo campionato; nel 1997 si inaugura il primo campo nella zona di Torino Esposizioni, con muri in plexiglass; fra il 1999 e 2005 è attiva una struttura gonfiabile, dentro al parco della Pellerina; dal 2002 al 2015 è in funzione il Palahit, che diventa campo di gioco e luogo di aggregazione (oggi il Palahit è stato sostituito da un Lidl, restando un luogo mitico per i giocatori tornati alle palestre scolastiche, da conquistare a inizio anno nell’usuale competizione fra associazioni locali). Nel 2018 l’organizzazione dei campionati ufficiali e l’intero movimento confluiscono in UISP aps, mantenendo il coinvolgimento di giocatori e appassionati all’interno della squadra di lavoro; viene cementata la natura di sport per tutti, trovando un partner ideale per la promozione di progetti sociali e attività di sviluppo e diffusione sul territorio nazionale.
Nella puntata radio di Francesco si spiega che non esistono ruoli fissi; ogni giocatore è sia defender che attaccante, e le posizioni sono continuamente rimescolate a seconda del ritmo della partita; quando un defender tira si stabilisce nella zona di attacco per murare gli avversari, e contemporaneamente un attaccante indietreggia in difesa per sostituirlo, così da mantenere costante l’equilibrio sul campo.
La dinamica dell’hit ball crea forte collaborazione fra compagni, che devono capirsi, sviluppare intesa; tutti possono trovare una collocazione in campo, quali che siano le capacità fisiche e mentali; ognuno può avere un suo ruolo dentro l’armonia complessiva della squadra. L’hit ball è giocato misto, con uomini e donne ad ogni livello, e nessuna superstar può monopolizzare il gioco, poiché la palla va solo toccata, non trattenuta, e non esistono ruoli che impostano l’azione come un playmaker nel basket, o un catalizzatore del gioco come nel calcio: tutto è più livellato, democratico, collaborativo.
L’esperienza dell’hit ball ci racconta come ancora esistano sport distanti dalle burocrazie, in una fase simile all’infanzia o all’adolescenza, di assorbimento continuo, libero, spensierato. L’evoluzione è avvenuta e avviene senza decisioni calate dall’alto, ma sul territorio, nelle scuole, generata dalla sperimentazione fra professori e ragazzi, fuori e dentro le ore di lezione. È una diffusione spontanea e capillare di energia, concimata da enorme passione e follia, da estro e pianificazione, che includono l’amicizia e la competizione, fiumi di birra e riunione logistiche la sera. È uno sport in fase “artigianale”, e non “industriale”. Potrà mantenere ancora l’anima artigianale, o inevitabilmente, quando un’attività funziona, industriale lo diventa suo malgrado?
Chi vuole ascoltare l’intervista integrale su radio Antidoto (nata durante la pandemia, come antidoto all’isolamento), la trova qui. Il video promozione dell’hit ball è disponibile qui.
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