Produzione di energia elettrica: la Cina è davvero un esempio virtuoso?
Secondo un articolo pubblicato in data 10 c.m. su questo quotidiano a firma Francesco Sylos Labini, l’esempio cinese di transizione energetica è non solo virtuoso ma da replicare ovunque. Del resto il titolo dell’articolo è significativo: “Dalla crisi climatica potrà salvarci il solare cinese”.
Sylos Labini è un autorevole fisico, e, come tale, ha grandi competenze in materia, ma anche, se mi è permesso, una visione limitata della crisi climatica e delle soluzioni per risolverla (ammesso che ne esistano davvero…). La sua impostazione è simile a quella di altri fisici, Mattioli, Scalia, o ingegneri come Silvestrini: il riscaldamento globale esiste ed è di causa antropica. E sarà sufficiente cambiare le tecnologie e transitare dalle fossili alle rinnovabili per risolverlo. Mutuando proprio un proverbio cinese, direi che nel caso si guarda il dito e non la luna, o, per lo meno, si vede solo una parte del problema e non la sua interezza.
Innanzitutto, l’articolista dimentica che lo sviluppo industriale del gigante asiatico non è garantito solo dal solare. La grande forza trainante tra le rinnovabili è stato infatti l’idroelettrico, e, a tale proposito, occorre sottolineare i costi ambientali e sociali che esso ha causato in quella nazione. E che ancora causerà. Basti ricordare la Diga delle Tre Gole (fortemente voluta dall’allora presidente Mao Tze Tung) che ha comportato, oltre all’alterazione dell’ecosistema locale, il trasferimento forzato di circa 1,2 milioni di abitanti e la sommersione di più di 1.300 siti di interesse archeologico, 13 città, 140 paesi e 1.352 villaggi. E la “virtuosa” Cina non si ferma qui: l’idroelettrico continua ad essere considerato un’enorme risorsa. E così ecco in progetto la realizzazione della più grande diga al mondo, sull’alto corso del fiume Brahmaputra, per una produzione di 300 TWh all’anno (la Diga delle Tre Gole ne produce meno di 100).
Ma che le energie alternative al fossile siano rinnovabili ma non pulite, e comportino rilevanti danni ambientali, è accertato sempre in Cina dai cosiddetti “villaggi del cancro”, come quelli che sono situati nelle vicinanze dei siti di estrazione di quelle terre rare così necessarie nel processo di transizione ecologica (pale eoliche, batterie delle auto elettriche, oltre che cellulari). Da non trascurare poi il discorso relativo all’esportazione dell’esempio cinese in altre nazioni. L’articolista esalta il solare cinese. Ma la Cina ha un territorio che forse non risente così tanto del consumo di suolo determinato dai pannelli solari a terra, anche se sarebbe interessante sapere quanto ne comportano i mille Gigawatt prodotti nel 2023 citati nell’articolo. Ma qui da noi, con la nostra densità di popolazione e la ricchezza dei terreni agricoli da cui dipendiamo, si può fare?
E veniamo infine al punto dolente che gli esperti di transizione energetica si guardano bene dal toccare, e che personalmente, nel mio piccolo, misi in evidenza all’epoca del “Sole che ride”. Va bene per la carità dire no a petrolio e similari, così come recitare il vade retro al nucleare (e qui concordo con Sylos Labini), ma produrre energia per cosa? Siamo sicuri di poter mantenere il nostro stile di vita e anzi estenderlo ai paesi emergenti? Altri fisici che studiano la nostra impronta ecologica dicono ovviamente di no. Anche perché, tra l’altro, anche la realizzazione di pale eoliche e pannelli solari comporta consumo di risorse e problemi di smaltimento a fine vita.
Lo so che nessuno, a parte Latouche e pochi altri ovviamente, vuole sentirne parlare, ma prima di pensare di sostituire le energie fossili occorrerebbe porsi la domanda, e qui mi ripeto: energia per che cosa?
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