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Manovra al voto di fiducia. La via crucis del governo tra passi falsi sui testi, pasticci sui numeri, marce indietro, ritardi e litigi

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La manovra per il 2025 approda al voto di fiducia alla Camera dopo giorni di caos a Montecitorio, tra passi falsi, precipitose marce indietro, ritardi, tensioni con i funzionari, errori senza precedenti. La votazione finale è prevista per le 22:30. Il Natale dei deputati è salvo ma i senatori dovranno dare l’approvazione definitiva il 28 o 29 dicembre. Il governo archivia il dossier della legge più importante dell’anno con la magra figura di una gestione disordinata difficile da giustificare, se si pensa che il Mef ha avuto due mesi di tempo per mettere a punto le modifiche precipitosamente convertite sabato in emendamenti dei relatori per evitare di doverle accompagnare con dettagliate relazioni tecniche. Giorgia Meloni, che non ha mai tenuto la conferenza stampa annunciata in ottobre per presentare il ddl Bilancio, è a Bruxelles per il Consiglio europeo e tace. Giancarlo Giorgetti, nel mirino per i pasticci sui numeri visto che all’ultimo secondo è spuntata una “sovracopertura” di 100 milioni di euro, vola a Lampedusa per gli auguri al contingente delle Fiamme Gialle. Le opposizioni – annunciando voto contrario – mettono il dito nella piaga. (Qui lo speciale con tutte le tappe)

Il caos del weekend e gli emendamenti spacchettati – La via crucis inizia venerdì scorso, con una seduta notturna della commissione Bilancio andata avanti fin quasi alle 3 di notte senza che il governo presentasse il secondo pacchetto di modifiche dopo quello depositato in giornata. Sabato sera i testi arrivano, ma i capigruppo delle opposizioni scrivono alla presidenza del Consiglio lamentando una sostanziale riscrittura di buona parte della legge di Bilancio – decine di articoli – che non avrebbe permesso “una compiuta istruttoria legislativa” vista la “struttura estremamente eterogenea”. Il presidente della Camera Roberto Fontana media e alla fine arriva lo spacchettamento in sei diverse proposte, distinte per materia, su cui però mettono la firma i relatori in modo da dribblare la necessità della relazione tecnica. Il ritardo accumulato nel frattempo fa sfumare l’obiettivo di chiudere i lavori in commissione nel weekend come Giorgetti aveva annunciato il venerdì precedente.

Marce indietro e fallimenti – Nel merito, insieme alle annunciate marce indietro su ampliamento della web tax e tassazione sulle plusvalenze da criptovalute (contestate fin dall’inizio da una parte della maggioranza) si materializza l’atteso taglio dell’Ires per le imprese, ma solo per il 2025, con coperture limitate a 400 milioni una serie di paletti che limitano l’accesso. Quante aziende ne usufruiranno non è dato saperlo visto che manca la relazione tecnica. Idem per l‘allentamento dei vincoli per l’accesso ad Assegno di inclusione e Supporto formazione lavoro, di cui aumenta anche l’importo: segnale che il governo prende silenziosamente atto del fallimento delle due misure anti povertà, che sono andate a una platea molto inferiore rispetto a quella che riceveva le misure anti povertà. Immancabili le solite mancette: micronorme localistiche per guadagnare consenso o ingraziarsi piccoli gruppi di elettori.

Il passo falso sugli stipendi dei ministri – Lunedì alla ripresa dei lavori esplode il caso della norma che equipara le indennità dei componenti di governo che sono anche deputati e senatori a quelle di chi non è stato eletto: una modifica che avrebbe regalato corposi aumenti a 17 tra ministri, vice e sottosegretari. La maggioranza, dopo le polemiche, si esibisce in un memorabile scaricabarile: nessuno si assume la responsabilità di aver voluto il forse giusto, di sicuro poco popolare ritocco. In serata Guido Crosetto, tra i potenziali beneficiari, ufficializza la richiesta di ritirare l’emendamento. Che alla fine viene modificato ripiegando su rimborsi d’oro per le trasferte da e per Roma dei ministri e sottosegretari che non vivono nella Capitale. Ma le figuracce non sono finite.

La beffa sulle pensioni e lo scippo per il Ponte – Martedì la diffusione dei deludenti dati finali sulle adesioni al concordato preventivo biennale mette la pietra tombale sulle ultime speranze di poter infilare in manovra il taglio della seconda aliquota Irpef più volte evocato come panacea per aiutare il “ceto medio”. La Lega, che ancora una volta non riesce a ottenere il promesso “addio alla Fornero”, rivendica il passaggio di una proposta che consente di andare in pensione a 64 anni cumulando la previdenza obbligatoria e quella complementare, ma è una beffa: serviranno 25 anni di contributi e l’opzione varrà solo per chi ha diritto a un assegno pari a tre volte quello sociale (1.600 euro). La giornata, nel tentativo di evitare altre trappole, è segnata da nuovi aggiustamenti e dietrofront: via l’obbligo di revisori del Mef nelle società che ricevono contributi pubblici e l’incremento dell’1,8% delle tariffe autostradali previsto in un emendamento dei relatori, dimezzato da 40 a 20 l’allungamento senza gara delle concessioni di distribuzione elettrica, rafforzato il divieto per parlamentari e membri del governo di ricevere compensi da soggetti extra Ue (la cosiddetta norma anti-Renzi). Ridotti, rispetto ai 3 miliardi ipotizzati nell’emendamento originario, anche i fondi aggiuntivi previsti per il Ponte sullo Stretto. Ma il giorno dopo, letta la novità, opposizioni, Anci e Upi si concentrano sullo scippo di risorse al fondo di coesione e agli enti locali, che si vedono sottrarre 1,5 miliardi di fondi per la manutenzione delle strade, e vanno all’attacco.

Le tensioni in capigruppo – Intanto sale il nervosismo e si accumulano le tensioni in maggioranza e con gli uffici dei ministeri. Mercoledì va in scena anche una burrascosa riunione dei capigruppo della Camera chiamati, dopo la maratona notturna in commissione Bilancio, a definire i tempi dell’esame in Aula. C’è ancora lo spettro della necessità di un ritorno in commissione per problemi di coperture e Galeazzo Bignami, nuovo presidente dei deputati di FdI al posto di Tommaso Foti, accusa i funzionari della Camera. Poi minimizza: “Ho solo detto che se gli uffici si prendono 36 ore per i lavori di allineamento delle tabelle e dei conti, mi aspetto che bastino per non tornare in commissione”. Colleghi di maggioranza gli fanno notare che semmai la colpa va cercata nel lavoro frettoloso del Mef e della Ragioneria, guidata dallo scorso agosto dall’ex direttrice dell’ufficio legislativo di Giorgetti Daria Perrotta.

Governo in ritardo e testo sbagliato – Giovedì mattina la gestione fallimentare dell’ultimo miglio emerge plasticamente: l’aula è convocata alle 8 del mattino per la discussione, ma a quell’ora il governo non c’è. Dopo mezz’ora spunta la sottosegretaria all’Economia, Lucia Albano, e passa altro tempo prima che si materializzino Giorgetti e il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani, che nel chiedere la fiducia si scusa ma ammette: “So che le giustificazioni stanno a zero e non intendo ricorrere lo scaricabarile come pure potrei”. Nel frattempo il Mef ha fatto sapere che il testo non deve tornare in commissione perché di coperture ce n’è anche troppe: 100 milioni in più nel 2025 e altrettanti nel 2026. Una prima assoluta nella storia repubblicana. “Confluirà nel conto di controllo, strumento previsto dal Psb, per abbattere il deficit”, dicono le veline. Nessuno spiega come sia stato possibile un errore di calcolo così marchiano. Passano poche ore e spunta un altro sfondone: serve una errata corrige perché nel testo presentato in Aula manca una riga e mezzo che prevedeva una delle condizioni per l’accesso all’Ires premiale e ci sono sviste nell’indicazione delle coperture di una norma sullo smaltimento delle istanze di equa riparazione.

30 miliardi senza novità – In serata, salvo nuove sorprese, il voto finale. Le affannose modifiche degli ultimi giorni spostano di poco gli equilibri di un provvedimento di piccolo cabotaggio, con misure per 30 miliardi. Diciassette dei quali serviranno solo per rendere strutturali gli effetti del taglio del cuneo per i dipendenti con redditi bassi inaugurato da Draghi (non senza penalizzazioni per una parte dei beneficiari) e Irpef a tre aliquote. Per la sanità ci sono fondi insufficienti per aumentare il rapporto tra stanziamenti e pil. Il bonus nuove nascite copia una misura quasi identica voluta da Berlusconi vent’anni fa, le pensioni minime vengono aumentate della miseria di 1,9 euro al mese, il canone Rai nonostante gli strepiti della Lega risale a 90 euro dopo che la maggioranza è andata sotto durante un voto in commissione sul rinnovo del taglio. Sul fronte delle entrate arriva una sforbiciata sulle detrazioni per chi dichiara oltre 75mila euro e non ha figli e per i contribuenti con cittadinanza extra Ue viene cancellata l’agevolazione prevista per il coniuge a carico e per i figli a carico di età compresa tra 21 e 30 anni. Mentre il “contributo da banche e assicurazioni” è solo un anticipo.

Le opposizioni: “Le uniche misure utili sono quelle ereditate” – “Siamo alla terza legge di bilancio del governo Meloni e le uniche misure utili al Paese sono quelle che avete ereditato dal governo precedente“, attacca durante la dichiarazione di voto il deputato dem Ubaldo Pagano. “Per il resto torna in voga l’austerità per tutti, le mancette elettorali, il Ponte sullo Stretto, il Sud al guinzaglio del potente di turno”. Gianmauro Dell’Olio (M5S), vicepresidente della Commissione bilancio della Camera, bolla il testo come “la peggior legge di bilancio che io abbia mai visto, peraltro un festival dell’incapacità cooperativa della maggioranza”. E ricorda: “Per il 60% è dedicata alla semplice conferma del taglio del cuneo fiscale, senza un euro in più per ceti medio-bassi”. Nicola Fratoianni, leader di Avs, si concentra sulle risorse insufficienti per la sanità e quelle a suo dire eccessive per la difesa: “Questa legge di bilancio non risponde ai problemi principali del Paese, né fa onore alla politica e alla sua funzione, garantisce però floride casse per l’industria militare“.

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