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Siria, in dieci giorni si è passati da promesse di apertura al golpe internazionale contro la rivoluzione

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Chiunque abbia seguito da vicino le vicende siriane dal 2011 sa che il desiderio di cambiamento è stato espresso da una parte importante della società, sia pur in modi e con obiettivi diversi. Alcune prospettive hanno avuto modo nel tempo di consolidarsi maggiormente, dando luogo e istituzioni di fatto che, nel corso del tempo, hanno conteso al regime il controllo del territorio. La principale e più grande è l’Amministrazione autonoma del nord-est (DAA): benché costruita a partire dal Rojava e dalla resistenza di Kobane è erroneamente identificata con “i curdi” quando è espressione di forze arabe democratiche e delle sole forze progressiste e socialiste tra i curdi (che non sono le uniche). Tanto i curdi quanto gli arabi che non sono né socialisti né democratici hanno parteggiato in questi anni, infatti, per i governi o stati “islamici” dichiarati nel tempo da Daesh, Tahrir Al-Sham o dall’esercito turco in Siria. Le virgolette sono d’obbligo perché la stragrande maggioranza dei siriani che si identificano come musulmani hanno più volte manifestato il loro disprezzo o la loro paura verso queste istituzioni, fondate su concezioni dubbie e largamente contestate dell’islam. Le forze arabe e curde della DAA che in queste ore difendono Kobane assediata dalla Turchia sono in gran parte composte da musulmani sunniti che non comprenderebbero perché tale identità dovrebbe essere in contrasto con la costruzione di una Siria decentrata, democratica e originalmente socialista.

L’esercito turco sta preparando con bombardamenti l’attacco finale contro Kobane insieme a gruppi criminali chiamati “Esercito nazionale siriano” benché posti sotto la diretta catena di comando delle forze di Ankara. Sono legati, si noti, a una “Coalizione nazionale” creata dai Fratelli musulmani e ufficialmente riconosciuta dall’Italia e da altri paesi come “legittima rappresentante” delle aspirazioni siriane (su quali basi?). Non a caso dopo che l’inviato dell’Onu in Siria Geir Pedersen ha comunicato che l’azione turca contro Kobane avrebbe conseguenze “catastrofiche”, Ursula Von der Leyen si è affrettata a offrire sostegno alla Turchia e ad annunciare un altro miliardo di euro delle nostre tasse in cambio di un rinnovato argine contro flussi di migranti (tra cui, magari, coloro che sono stati cacciati dalla Turchia dai campi profughi intorno ad Aleppo il 29 novembre – 200mila persone – e quelle, probabilmente altrettante, che potrebbero lasciare Kobane se l’attacco turco si intensificherà). Dieci anni dopo la storica resistenza di Kobane contro Daesh è fondamentale allora mostrare nelle piazze supporto per quelle persone, quella città e la sua nuova resistenza. Altrettanto importante è chiarire quali sono le responsabilità storiche che si stanno delineando.

Abu Muhammad Al-Jolani alias Ahmad Al-Shaara aveva annunciato durante la sua discesa da Idlib verso Damasco che la sua fazione ci avrebbe stupiti, mostrando un’apertura inedita a concezioni della rivoluzione che non avrebbero escluso nessuno dalla Siria post-Assad. Sono bastati dieci giorni per mostrare il contrario, ossia che gruppi come il suo nulla possono offrire se non ipocrisia e servilismo. Al-Jolani ha cominciato trasferendo il suo governo monocolore da Idlib a Damasco per chiamarlo “Governo di transizione siriano” ed escludere tutte le forze del paese dalla transizione: i drusi di Liwa Al-Jabal, che hanno combattuto per liberare Damasco prima che Tahrir Al-Sham ci mettesse piede; le Forze siriane democratiche della DAA e i gruppi arabi provenienti dal sud-est. Ha quindi puntato tutto su un riconoscimento esterno, chiarendo che la nuova Siria sarà un mercato “libero” e ancora più accogliente per i profitti stranieri di quello già riformato in senso neoliberale negli anni Duemila da Assad: i capitali stranieri turchi, statunitensi, del Golfo potranno fare buoni profitti nella ricostruzione. Infine, non a caso, ha accuratamente evitato di contrapporsi, anche solo politicamente, all’invasione israeliana, o di contrastare la guerra che il suo protettore turco sta conducendo contro la DAA nel nord del paese.

Cose in linea con il suo pedigree umano e politico, ma in contrasto con la propaganda dell’8 dicembre, destinata a spianare la strada quindi non al compimento della rivoluzione, ma a un colpo di stato internazionale contro la rivoluzione per cui in tante e tanti, e non certo soltanto i suoi uomini, hanno lottato e perso la vita in questi tredici anni. Le dichiarazione di Al-Jolani sull’inclusione e il rispetto delle “minoranze” e, in successive e più specifiche dichiarazioni, dei “curdi”, erano già di per sé rivelatrici: parlavano sempre in termini etnici anziché politici, evitando accuratamente di menzionare la DAA e il confronto sulla natura delle nuove istituzioni e della nuova costituzione. La retorica sui “fratelli curdi” è sempre stata caratteristica della Turchia di Erdogan e Hakan Fidan: come continuano a ripetere da anni e come martedì Al-Jolani ha a sua volta ripetuto, “la comunità curda non si identifica con le Ypg e il Pkk”. Tradotto: quando parliamo di curdi ci riferiamo a quei gruppi che in Kurdistan sono disponibili a piegarsi ai nostri interessi e progetti, non alle forze che incarnano il cambiamento e il radicamento sociale anticapitalistico in quelle comunità. La mano tesa di Erdogan e Al-Jolani è rivolta ai dodici partiti curdo-siriani filo-turchi dell’Enks, docili e insignificanti, vicini all’islamismo della Fratellanza musulmana siriana e al tempo stesso (paradosso soltanto apparente) a Israele.

I “curdi”, come la “Siria” o “l’islam” del resto, vanno bene quando sono docili e sottomessi all’imperialismo, alle gerarchie economiche e patriarcali esistenti e alla finanza regionale o mondiale. In dieci giorni la decisione di gettare a mare l’apertura politica determinata dal dissolvimento del regime è stata presa: tale è il valore trasformativo o “decoloniale” che, dai Fratelli musulmani che assediano Kobane agli ex-qaedisti che si inchinano a Israele da Damasco, ha sempre avuto e ha oggi il feticcio che da occidente ci si attarda a valorizzare come “islam politico”.

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