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“È precaria” e il ministero nega il trasferimento di una madre da Firenze a Bari, ma il Tribunale del Lavoro glielo impone

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Per legge, Paola (nome di fantasia) aveva tutte le caratteristiche per chiedere il trasferimento lavorativo temporaneo da Firenze a Bari. In quanto dipendente di un’amministrazione pubblica – come il ministero della Giustizia -, con almeno un figlio di età inferiore ai tre anni – nel suo caso tre -, e un marito occupato in Puglia, aveva il diritto di ottenere un posto alla Corte d’appello di Bari. Eppure le è stato riposto no. Secondo il ministero, la lavoratrice non poteva ottenere ciò che le spettava perché aveva un contratto a tempo determinato. Di fatto, non aveva gli stessi diritti degli altri lavoratori perché era una precaria. E così, dopo essersi laureata in Giurisprudenza e aver investito tempo e denaro per crearsi una carriera, ora doveva decidere se continuare a lavorare a 700 chilometri da casa sua e da suo marito, o dimettersi e dedicarsi alla cura dei suoi tre figli. La terza via era quella di rivolgersi a un avvocato e portare il ministero della Giustizia in tribunale. Cosa che Paola ha fatto, ottenendo dopo mesi di battaglia legale ciò che le spettava per legge fin dal principio.

“È incredibile che nel 2024 una donna debba ancora trovarsi ad affrontare discriminazioni di questo tipo”, commenta a ilfattoquotidiano.it l’avvocata Nunzia Parra, la legale che ha assistito la donna nel procedimento. “La cosa più assurda – prosegue – è che nello stesso mese in cui ha negato il trasferimento alla mia assistita, il ministero ha bandito un concorso alla ricerca del suo stesso profilo professionale. A Bari, nella città in cui Paola voleva prendere servizio, c’erano 121 posti liberi”. Per la legale, la donna ha subito un chiaro “atto discriminatorio e un abuso di potere”. Secondo la giurisprudenza, infatti, basta che ci sia un posto libero nella sede di destinazione per far sì che la domanda di assegnazione temporanea venga accettata. La norma che sancisce questo diritto è contenuta nell’art. 42-bis del Testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità (decreto legislativo 151 del 2001): il genitore con figli minori fino a tre anni di età, dipendente di amministrazioni pubbliche, può richiedere di essere assegnato per un periodo di massimo tre anni a una sede lavorativa situata nella stessa provincia o regione nella quale l’altro genitore esercita la propria attività professionale.

“Come ribadito da una recente sentenza della Corte costituzionale, questo istituto è stato introdotto nell’interesse del minore, oltreché per permettere ai genitori di conciliare i tempi di cura con quelli di lavoro”, spiega Parra. Per questo Paola era tranquilla di ottenere l’assegnazione temporanea a Bari. Invece la domanda è stata rifiutata. C’è voluto un ricorso, accolto dal tribunale del Lavoro di Firenze, per ottenere il trasferimento. “Quello di Paola non è un caso raro, anche perché molti lavoratori non sanno di avere questo diritto – commenta Parra -. E sono le donne quelle più colpite. L’arretratezza culturale del nostro Paese le costringe ancora troppo spesso a dover scegliere tra il lavoro e la famiglia”.

A fare più specie in questo caso è il fatto che il datore di lavoro sia il ministero della Giustizia. Paola, infatti, era stata assunta da palazzo Piacentini dopo aver vinto un concorso collegato al Pnrr. Ha preso servizio a Firenze nel 2022, con la qualifica di funzionario addetto all’ufficio per il processo, una nuova figura professionale dedicata allo smaltimento dell’arretrato della Giustizia, uno degli obiettivi identificati dal Pnrr. Proprio per la natura finalistica di questa professione, è stata inquadrata con un contratto a tempo determinato, ora rinnovato fino al 2026. Ed è proprio appigliandosi a questa precarietà che il ministero ha rigettato la sua istanza. “È stato un abuso di potere, oltreché un esempio di miopia – commenta Parra -. La normativa europea in materia di contratti a termine ci dice da anni che non possiamo discriminare un lavoratore perché precario. Come è avvenuto invece in questo caso”. E prosegue: “La cosa più curiosa è che la mia assistita avrebbe potuto continuare a svolgere tranquillamente il suo lavoro anche a Bari, senza nessun danno per la pubblica amministrazione e migliorando la qualità della vita sua e della sua famiglia. Lo smaltimento dell’arretrato della Giustizia poteva essere portato avanti anche da Bari. A maggior ragione se pensiamo che, contestualmente al ricorso, la corte d’appello pugliese stava cercando 121 figure professionali come la sua”, conclude Parra.

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