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Indietro tutta/2. Schlein, ascolta Meloni: basta modello Prodi del prima gli altri e poi gli italiani

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L’omaggio a Silvio Berlusconi e le parole dure su Romano Prodi. No, non è una operazione amarcord quella fatta dal palco di Atreju dalla premier Giorgia Meloni. Perché, nell’edizione di Atreju che conferma più che consacra Fratelli d’Italia come partito che diventa sempre più il governo, di massa, addirittura pigliatutto per certi versi, Giorgia Meloni disegna un immaginario che cammina con l’azione della sua leader. E lo fa a uso interno, con quel «Berlusconi che ha creato la coalizione di centrodestra sarebbe orgoglioso del milione di posti di lavoro creati da questo governo», come segno di continuità ideologica e operativa con quell’idea di coalizione che nasce sì con Berlusconi ma è radicata nel Paese, a prescindere dal leader che ne porta il testimone. Non è Meloni che diventa berlusconiana, ma è la conferma che c’è una coalizione che esiste e vive nel segno di una continuità ideale e coerente.

Poi, dall’altra parte, c’è Romano Prodi. Ma non in quanto arci-nemico di Berlusconi, ma come simbolo di un potere politico e della sua interpretazione. «Ipse dixit Romano Prodi: l’establishment adora Meloni perché obbedisce. Voglio dire a Romano Prodi – dice la premier dal palco – che diverse cose che ha fatto nella sua vita, dalla svendita del’Iri a come l’Italia entrò nell’Euro, passando per il ruolo determinante nell’ingresso della Cina nel Wto, dimostrano che di obbedienza se ne intende parecchio. Da persone come lui abbiamo imparato che obbedire non porta bene né alla Nazione né all’Europa, e abbiamo fatto una scelta diametralmente opposta».

Il senso è tutto qui, perché la percezione nel Paese reale di Prodi – a ragione per i meloniani e non solo, a torto per le redazioni dei giornali amici di Prodi – è quella per cui l’ex presidente della Commissione europea ed ex premier rappresenta proprio il modello di politico italiano che non ha mai fatto dell’interesse nazionale il centro della sua azione politica. Di colui che è stato nei decenni portatore di interessi altri, a discapito di quelli italiani. Prodi, sempre nell’immaginario di cui sopra, inoltre è esempio massimo della casta del potere di sinistra, “protetto” dalla narrazione giornalistica e accademica – degli altri poteri, appunto – che ha giustificato ogni suo passaggio e ogni sua scelta. Un po’ – questo il percepito – per convenienza, un po’ per antiberlusconismo militante e un po’ per appartenenza ideologica e corporativismo.

Prodi diventa quindi simbolo di ciò che non va fatto proprio ora che la politica europea è a un bivio decisivo, per il ruolo che la stessa Meloni immagina per sé e per l’Italia con la nuova presidenza Von der Layen e fuori dai confini europei. Dopo Iri, euro e debolezze nei confronti di Germania e Francia, Prodi diventa la cartina di tornasole di cosa non fare oggi con la Cina nel gioco dei rapporti tra potenze in un mondo multipolare, vista la grande vicinanza tra il dragone e il professore di Bologna.

Schlein, che di Prodi è ennesima creatura, di quel laboratorio sinistro bolognese, di essere accomunata al professore dovrebbe dolersene. Perché passata la stagione della gestione diretta di questo potere, sempre nel Paese reale, Prodi oggi è una figura perdente. Anzi, il centrosinistra perde proprio perché è figlio – e culturalmente ancora succube – della stagione prodiana, quelle delle ammucchiate uliviste e dei disastri europei sulla moneta unica e non solo. Del prima gli altri, gli italiani poi.

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