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Trevisàn-italiano, il dizionario in edicola con il nostro giornale

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Dario Tesser svela i segreti della "Cae de oro" con un affascinante progetto: un dizionario che svela i segreti del dialetto trevigiano, con un focus particolare sul gergo della "Cae de oro", l'antico quartiere popolare della città. Il Dizionario trevisan/italiano-italiano/trevisan, pubblicato da Editoriale Programma, è un contributo alla conoscenza della civiltà del territorio e che è in allegato alla Tribuna di Treviso.

Giornalista e scrittore, Tesser si occupa stabilmente (è la vocazione della vita) di equitazione come allenatore e come indagatore della storia e del mondo dei cavalli, ma ha deciso di uscire dal suo ambito per dedicarsi alla raccolta di un materiale che è andato stratificandosi negli anni, fotografando una sorta di “dialetto nel dialetto”.

«In città si sente sempre meno parlare dialetto, soprattutto tra i giovani - dice l’autore - Per fortuna la memoria della “Cae de oro” con il suo gergo sopravvive in qualche modo anche se respira appena. È l’amaro. Che si stia perdendo è documentato dal fatto che, tra coloro che lo ricordano, è controverso se l’accento debba cadere sulla prima o la seconda “a”. Come si offusca la memoria di quell’intrico di stradine nella zona più povera e popolare dentro le mura di Treviso. Una parte significativa del mio lavoro è proprio dedicata alla riscoperta di come il dialetto trevigiano si sia intersecato e fuso con questa parlata, dando vita ad una sorta di dialetto nel dialetto. Ho raccolto i lemmi di questo dizionario perché un modo antico e affascinante non svanisca definitivamente tra un sampietrino e l’altro».

Cae de oro è uno dei cuori di Treviso, per molti è forse solo un nome che ne richiama la presenza di alcune celebri case di tolleranza, ma in realtà era un mondo a sé.

Il quartiere più povero e popolare, che per estensione e densità abitativa interessava una rilevante porzione di gente e fabbricati.

Tesser tiene conto della pluralità di significati che assumono le parole nel tempo, modificandosi in modo anche molto sensibile.

Particolare attenzione è stata dedicata al sempre aperto problema della trascrizione dei fonemi dialettali.

Gian Domenico Mazzocato, narratore della Storia e della cultura veneta, nel suo saggio introduttivo si interroga su una questione da sempre dibattuta: quando un dialetto smette di essere tale e diventa lingua?

Un dialetto si fa lingua quando scrittori e intellettuali lo nobilitano. Usandolo. Dimostrandone le possibilità espressive nelle loro opere e imponendolo fuori del territorio di origine. In questo senso, annota lo scrittore trevisano, questo dizionario è uno strumento formidabile.

«Ci troviamo di fronte ad una vera e propria enclave linguistica che nasce in centro a Treviso - spiega Mazzocato - Cae de Oro era l’ambiente più popolare, come se fosse un porto di mare, e con le persone che venivano da fuori si è creata una lingua a sé stante. Il Dizionario propone una riflessione su una lingua che nasce dentro un’altra lingua, ciò può dare il via a studi e a tesi di laurea».

Il sindaco Mario Conte, nella sua presentazione, parla della riscoperta «del nostro patrimonio linguistico e culturale», con riferimento a «un presente che merita di essere valorizzato e fatto conoscere».

Il 18 dicembre sarà presentato al Museo Bailo (saletta Vittorio Zanini, ore 17.30): dialogheranno l’autore, l’editore Angelo Pastrello e Mazzocato.

Ecco alcune voci

Co’ un colpo no’ se taja un albaro: Con un colpo non si taglia un albero ─ I lavori benfatti richiedono tempo.

’Ndar par sóra: Andare sopra ─ Tracimare.

Bateʒà co’ l’acua dei folpi: Battezzato con l’acqua di cottura dei polipi ─ Si usa per definire una persona sfortunata o qualcuno di non molto intelligente.

Botéga de cantòn fa ciapàr schei a ogni moltón: (Una) bottega ad angolo fa prendere soldi a ogni montone (caprone) ─ Chiunque fa soldi con una bottega d’angolo, anche il più scemo.

Bruto in fasa, bèo in piasa: Brutto in fasce, bello in piazza ─ Un bambino brutto può diventare bello da grande (vale anche per il contrario).

Can nό magna can: Cane non mangia cane ─ I simili non si combattono a vicenda.

Cualche volta ʒe mejo ver sincue schei de mona in scarsèa: A volte è meglio avere cinque soldi in tasca ─ A volte è meglio passare per sempliciotti.

El ga i corni in cróʒe: Ha le corna nella croce ─ È arrabbiato.

El ʒe ’na bronsa cuèrta: È una brace coperta ─ Si usa per riferirsi a una persona che appare innocua ma che in realtà si rivela vivace o, in senso spregiativo, pericolosa (come la brace che cova sotto la cenere senza essere vista).

El ʒe stufo agro: È stanco esausto ─ È stanchissimo.

El me ga dito su: Mi ha detto su ─ Mi ha rimproverato.

El se ga cavà ’na spisa: Si è tolto un prurito ─ Togliersi una soddisfazione o esaudire un proprio desiderio.

El vién co’ e man ʒgorlando: Viene scuotendo le mani ─ Riferito a qualcuno che arriva senza portare nulla, a mani vuote.

Far ciàro: Fare chiaro ─ Illuminare, fare chiarezza, inteso anche come riordinare (sia gli spazi che le idee); sperperare, fare “piazza pulita”.

Fiòi da ʒlevàr, fero da roʒegàr: Figli da crescere, ferro sa rosicare ─ I figli comportano problemi.

Ghe manca un bojo: Gli manca un bollore, non è bollito al punto giusto ─ Riferito a una persona che non riesce a capire o immatura.

Ghe ʒè pì dì che ługanega: Ci sono più giorni che salsiccia ─ L’abbondanza non è infinita.