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Bolivia, l’attivista Adriana Guzmán Arroyo fermata durante le proteste contro la violenza di genere: “L’unica risposta degli Stati è la repressione”

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Adriana Guzmán Arroyo, è Aymara, vive in Bolivia ed è una nota attivista femminista oltre che scrittrice. Fa parte dell’organizzazione Feminismo Comunitario Antipatriarcale e delle Femministe di Abya Yala. Gira il continente, ed è stata anche in Europa. Crea connessioni e cerca di tessere reti continentali e internazionali. Con l’accusa di aver imbrattato il palazzo della vicepresidenza è stata fermata e portata in caserma, e quindi percossa e dopo liberata con una denuncia a piede libero. E’ successo il 25 novembre a poche ore delle mobilitazioni per la Giornata internazionale contro la violenza di genere. E’ stata denunciata con l’accusa di aver imbrattato, a volto coperto, il palazzo della vicepresidenza della Bolivia. Il fermo è stato molto scenico, con tre volanti e una decina di agenti di polizia. All’arrivo della notizia si è creato un capannello di gente che ha preteso la sua liberazione e quindi a livello internazionale è stata organizzata una denuncia pubblica contro il governo e la polizia boliviana. Quando parla e si fa intervistare parla al plurale, tende a negare l’io e proporre una visione collettiva sulla crisi politica, sociale ed economica della Bolivia.

Il suo arresto ha a che fare con quanto sta accadendo oggi in Bolivia, con lo scontro per il potere tra Arce e Morales?
Ciò che accade oggi in Bolivia è molto simile a quello che sta accadendo in Perù o in Ecuador. I limiti e la crisi degli Stati-Nazione fanno si che l’unica risposta che arriva è la repressione. Stato e classi politiche vorrebbero imporre l’idea dell’inutilità dell’organizzarsi e del mobilitarsi. Ci sono, però, persone come me che sono testarde e che credono che sia necessario organizzarsi, che credono che ci siano responsabilità politiche e così sono attaccate. In Bolivia il processo popolare che si è dato in oltre 14 anni non inizia e non finisce con Evo Morales. La decolonizzazione del pensiero, la discussione sulla comunità, l’educazione comunitaria e riproduttiva, il ritorno alla terra sono il risultato di un processo popolare costruito dalle organizzazioni sociali. Lotte che hanno cambiato totalmente il modo di pensare, che hanno fatto recuperare la memoria ancestrale, hanno fatto rompere patti coloniali.

La crisi politica in Bolivia sta cambiando qualcosa anche da questo punto di vista?
Non siamo disposti/e a far sì che questo percorso venga annullato e invisibilizzato a causa delle accuse contro Evo Morales o per il fallimento dello Stato plurinazionale. C’è un governo che crede di poter nascondere il suo operato. Che crede di poter nascondere la crisi che attraversa la Bolivia e che ci saranno cibo e carburante a breve. E pensa che le persone ci crederanno nonostante i problemi siano irrisolti. Chi è come me lotta e pensa che la via d’uscita non sta nel capitalismo, non è l’industrializzazione, che la via d’uscita non è lo Stato, è persequitato/a. Il governo di Luis Arce è liberale, sta governando per gli imprenditori, sta consegnando il paese agli imprenditori. Denunciamo il saccheggio e per questo siamo perseguitati/e. Volevano costringermi ad auto-incriminarmi e dare informazioni su persone che erano con me. Sono accusata di danneggiamento di beni dello Stato e di travisamento. Gli stessi reati che utilizzano per perseguire oltre un centinaio di diverse organizzazioni sociali.

Il lavoro accademico ed universitario può essere utile per le lotte sociali?
Oggi il pensiero decoloniale è diventato moda. Tutto è decoloniale nell’accademia e c’è la necessità di inserire la parola decoloniale ovunque. Così, però, si depoliticizza il termine, non c’è né un’epistemologia né si crea un sapere collettivo che ci permette di avere un vero e proprio approccio de-coloniale. Mi sembra, che non si stia elaborando, al di là di quello, che è stato scritto da Fanon o da Silvia Rivera Cusicanqui un qualcosa di utile per davvero. C’è chi si è preso il monopolio del discorso de-coloniale ma non contribuisce, per davvero, alle lotte sociali e neppure al cambiamento reale del modo di vivere.

Cosa bisognerebbe fare?
Dovremmo pensare realmente in termini de-coloniali, pensiamo alle questioni legate al riscaldamento globale: sappiamo che il modo di vivere di una parte del pianeta è insostenibile e non saranno i popoli indigeni le femministe indigene a cambiarlo. Serve un coordinamento, una lotta che si muove da popolazione a popolazione. Serve una sinergia perchè se chi vive nei paesi che più consumano, come i paesi d’Europa o gli Stati Uniti d’America, non riduce i consumi che senso ha lottare, con i nostri corpi, rischiando di essere ammazzate dagli interessi del capitalismo estrattivo, com’è successo a Berta Caceres?

Il pensiero postcoloniale o decoloniale è inutile?
Il mondo accademico non sta contribuendo al cambiamento. Parla molto di violenza, ad esempio, ma non sono a conoscenza dello sviluppo di idee o strumenti nuovi, strumenti che potrebbero essere utilizzati per prevenire la violenza, che potrebbero trasformare le politiche statali o che potrebbero aiutare a ricostruire il tessuto sociale con cui le donne hanno sempre risposto alla violenza.

In tutto il continente si verificano atti di repressione contro chi si oppone al patriarcato. Perchè?
Nella regione non è solo un discorso di violenza contro le donne, c’è una violenza strutturale che chiaramente, poi, si abbatte in maniera doppia, se non tripla, contro le donne, le dissidenze, gay, lesbiche, trans. Il modo di fare oggi politica, le campagne elettorali, tutto è cambiato. Oggi colpire il corpo delle donne fa eleggere presidenti. Non c’è più l’interesse al dialogo con le persone, con i popoli, con le organizzazioni. Gli apparati statali, le forze armate e di polizia hanno gli strumenti per reprimere. Oggi poi la cura degli elettori e delle elettrici, il prestigio di un governo o di un candidato non sono più necessari per vincere le elezioni. Non ci sono più i partiti tradizionali con candidature tradizionali, oggi può comparire un Milei, può comparire un Bolsonaro, personaggi senza un percorso o formazione politica, e neppure amministrativa o statale. Per questo dico che il modo di “fare politica” e il percorso democratico sono cambiati.

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