La perfezione nel calcio è come fosse poesia
Un’epopea di tiri al volo, tuffi impossibili, stop da funamboli e dribbling, colpi di testa, cross... Gesti che sono diventati leggenda, come i campioni che, osando, li hanno compiuti. Un libro celebra l’aspetto del calcio che più somiglia alla vita
«Nulla è più paninaro di questo gesto calcistico», scriveva Giorgio Bocca negli anni delle bombe e dei bomber. Si riferiva al colpo di tacco, sempre smargiasso ma non sempre inutile, quella giocata che per H.G. Wells serviva «a nobilitare la parte meno nobile del piede». Un giorno chiesero al fuoriclasse Eric Cantona, marsigliese, rissaiolo e poi attore, intellettuale della rive gauche: qual è stato il tuo gol più bello? Lui rispose: «È stato un passaggio». Pensava alla genialità dell’assist, il tocco a sorpresa che manda in porta il compagno di turno. «Non aver paura della perfezione, non la raggiungerai mai», sosteneva Salvador Dalí, ma Gigi Riva non lo sapeva e quel giorno a Vicenza si esibì nella rovesciata perfetta.Il colpo di tacco, il passaggio, la rovesciata. E poi il dribbling, il tiro, il cross, il calcio di punizione, il colpo di testa, la parata, il contrasto con le tibie che scricchiolano. E via aggiungendo, mentre la partita prende forma fra tecnica, istinto, personalità. Sono i gesti immortali del calcio che debordano da un libro originale, Giocati da Dio (editore Hoepli) scritto da Roberto Beccantini, fuoriclasse del giornalismo sportivo, simbolo della Generazione Cinema, quella che riusciva a raccontare lo Sport per immagini prima della morte civile provocata dalle statistiche. Il calcio dei calciatori attraverso momenti simbolici della memoria collettiva: il tiro al volo di Francesco Totti e Marco Van Basten, il tuffo impossibile di Dino Zoff, il gol assurdo di Michel Platini (annullato), la rovesciata immortale di Youri Djorkaeff a San Siro, la sgrullata di cabeza di Aldo Serena nel derby. E pure il tacco di Allah (Rabah Madjer in una finale di Champions). Elementi di corto circuito. E poi la hit parade dei migliori dieci gesti per categoria. Il gioco e le giocate visti da una tribuna, da una curva, da un divano. «La magìa dell’attimo che può cambiarti l’umore».
Beccantini ha un vantaggio, di colpi magici negli ultimi 50 anni ne ha visti molti. E tutti li ha raccontati, andando a chiedere lumi a chi li ha compiuti. «Ho avuto la fortuna di attraversare due millenni, sono nato nella lira e nella carta per atterrare sull’euro e sul web, mentre la televisione provvedeva a travolgere e stravolgere la lingua di accompagnamento, con la voluttà di farsi sentire e non sempre di “far sentire”. Questo è il calcio dei calciatori e dei sognatori, che oggi fatichiamo a riconoscere, legato com’è alle catene del business. Questo è il luogo dei rombi di tuono e dei lampi accecanti. Di momenti che ci hanno colpito e che abbiamo ammirato. Non ho voluto stilare classifiche ma raccogliere episodi, storie nascoste dietro una rovesciata, un dribbling, uno stop. Dai tunnel di Omar Sivori alle diavolerie di Leo Messi. Lampi che hanno scortato e scandito il mestiere di giornalista».In principio fu l’arte del dribbling, l’essenza della polvere e dell’oratorio, il calcio come la sublimazione dell’uno contro tutti. E qui c’è poco da scherzare: Garrincha, Pelé, Ronaldo il fenomeno, Leo Messi. Ma su tutti, i colpi d’anca di George Best. Descritti così: «Il dribbling di Best è stato un manifesto del Sessantotto, da destra al centro e poi a sinistra, il campo come piazza, il taglio ondulato ma netto. Il quinto Beatle fece del Manchester United un brand, oltre che una band. Trasformò la fascia laterale da cella a lenzuolo per evaderne. E come cantavano sugli spalti di Old Trafford: «Pelé good, Maradona better, George best».Assimilabile all’arte minimalista è lo stop di Roberto Baggio. Anche se incatenare quel genio a uno stop - per dirla alla Beccantini che adora i funambolismi della lingua - «potrà sembrare apologia di beato». Tutti gli stop. Soprattutto uno, quello di Juventus-Brescia, con il Divin Codino al tramonto, icona nella città della Leonessa. «La palla spiove nel sole di un pomeriggio abbastanza ordinario. Van der Sar (portiere bianconero, ndr) esita: esco, non esco. Esce ma in maniera un po’ amletica. D’improvviso il problema di Baggio, domare la palla e portarsela avanti, diventa il problema dell’olandese. Perché Robi il suo l’ha risolto. Scucchiaia la palla con il piede destro e se la porta sulla sua sinistra. Così facendo sorpassa ed elude il portiere, che invano abbozza un tuffo, e sempre di sinistro fa gol».
Alla ricerca del gesto perduto l’autore diventa Indiana Jones e scopre miniere di aneddoti. Per esempio che l’assist più stitico della storia coincide con il gol da fermo più incredibile di Diego Maradona a Napoli. Novembre 1985, il pomeriggio buio e tempestoso sta rotolando verso uno 0-0 senza storia fra gli azzurri e la Juventus, quando l’arbitro fischia una punizione indiretta. Sulla palla si piazzano Eraldo Pecci e il Niño, la barriera juventina è una muraglia cinese. «Toccamela un po’ dietro», sussurra Maradona a Pecci. «Ma dài, di lì non passa». «Ti ho detto toccamela». «Vabbè il genio sei tu», si arrende Pecci. E con la suola fa ruotare la palla di 20 centimetri. Con un tocco di interno sinistro Diego trasforma la parabola in arcobaleno: tutti sorvolati e folgorati. Gol. Come direbbe Paolo Sorrentino, è stato il piede di Dio. Pecci esulta: «Diego, hai visto che assist ti ho fatto?». Il vaffa argentino è affettuoso.Un capitolo a parte merita l’arte del contrasto o tackle, l’anima rude degli sport di squadra. Calcio, rugby, hockey, football americano, qualche volta basket, pallanuoto (sott’acqua ci si picchia che è un piacere); atteggiamenti da Far West nel ricordo imperituro di una frase erroneamente attribuita a Nereo Rocco ai suoi giocatori: «Colpite tutto quello che si muove a pelo d’erba. Se è il pallone, è meglio».
È l’elogio del corpo a corpo, con eroi della lotta al Colosseo come Beppe Furino, Claudio Gentile, Gennaro Gattuso, Beppe Bergomi, Sergio Ramos. Gente che oggi sarebbe ammonita solo per essere scesa dal pullman. Sempre il pragmatico Rocco amava dire che la squadra perfetta doveva contemplare «un portiere che para tutto, un assassino in difesa, un genio a centrocampo, un “mona” che segna e sette asini che corrono». Un assassino in difesa, perché lì dove si protegge il fortino, non tutti sono stati signori come Paolo Maldini o Gaetano Scirea.«Il libro non vuole essere un testo riservato esclusivamente ai migliori» spiega Beccantini. «Più terra terra, riassume e incarna l’intento di spalmare la gioia e lo stupore. La persona al centro del villaggio, non la tattica, non l’apparato. Maradona mica nacque tra la cipria e i broccati di Los Angeles. Anzi, nacque in una specie di mangiatoia alla periferia di Buenos Aires. Andy Brehme non era un fuoriclasse ma lo ha simulato, lasciando traccia di sé in un rigore che in una notte romana del 1990 si allungò ben oltre gli undici metri della cronaca. Ci sono incroci che il destino mescola all’improvviso: se sei pronto - e Andy lo fu - verrà la gloria e avrà i tuoi occhi, parafrasando Cesare Pavese». Giocati da Dio, titolo mutuato dalla frase preferita del calciofilo Carmelo Bene, rappresenta tutto ciò che è calcio oltre l’ordine costituito delle lavagne della tattica, oggi esasperante. È l’istinto, è il rischio, è il coraggio di andare oltre l’orizzonte. Con l’avvertenza che l’azzardo ottico non vale solo nello Sport ma anche e soprattutto nella vita. È quello che ti aspetti quando ti piazzi davanti al televisore con ansia fantozziana. Ed è ciò che fece dire a Vujadin Boskov: «Se uomo ama donna più di birra gelata davanti a Tv con finale di Champions, forse vero amore. Ma non vero uomo».