Unione europea, l’istituzione di pace che sceglie la guerra
di Pierluigi Franco
È noto alla storia che l’Unione europea, erede diretta della Cee e dei Trattati di Roma del 1957, sia nata con il preciso intento di garantire la pace. Era questo lo spirito principale che caratterizzava questa importante istituzione dopo i devastanti conflitti della prima metà del ventesimo secolo. Un’istituzione di pace, dunque, in grado di assicurare attenzione e benessere oltre a una notevole capacità di dialogo diplomatico. Per questo, fino a qualche anno fa, nessuno avrebbe immaginato l’incredibile involuzione storica alla quale i cittadini europei stanno oggi assistendo. Una involuzione che sembra aver raggiunto il suo acme sul finire del 2024. Quella istituzione di pace si è improvvisamente trasformata in istituzione di guerra, trascinata soprattutto da Paesi privi della benché minima cultura europeista e ammessi nell’Ue in tutta fretta dopo essere usciti dall’orbita sovietica. Sulla carta quei Paesi sono ben poca cosa, ma sono riusciti a far prevalere la loro linea di rivalsa mettendo all’angolo le vecchie linee diplomatiche di quelli che invece costituivano il vero nucleo dell’Ue, a partire da Germania, Francia e Italia.
Un segnale chiaro viene anche dalla nuova Commissione Ue guidata da Ursula von der Leyen, che affida il ruolo di Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza a Kaja Kallas, fino a luglio scorso Capo del Governo estone. Dunque l’Estonia, che conta appena 1,3 milioni di abitanti a fronte dei 450 milioni di cittadini dell’Ue, sarà chiamata a gestire il settore più delicato della politica comunitaria. Non importa che proprio l’Estonia guidata da Kallas abbia messo al bando, con una legge del 12 dicembre 2023 che ha creato forti perplessità dell’Onu, la cultura e la lingua russa parlata da oltre il 70% della popolazione dell’area orientale (nella sola città di Narva, al confine con la Russia, la percentuale supera il 90%). Eppure una delle caratteristiche richiesta ai Paesi dell’Ue sarebbe la tutela delle minoranze e della loro cultura. Né si può dire che i russofoni di Estonia abbiano responsabilità sulle decisioni di Vladimir Putin. Ma ciò che qualche anno fa avrebbe fatto inorridire Bruxelles, un tempo attenta a ogni segnale di “distrazione democratica”, passa tranquillamente sotto silenzio. Anzi, come in questo caso, viene addirittura premiata. È il pericoloso ritorno alle barriere e a quelle spinte nazionaliste, oggi camuffate all’interno dell’Ue, che tanti danni hanno fatto nel passato europeo e che sarebbe auspicabile non vedere più.
Troppa confusione sembra pervadere la politica europea. In tal senso è emblematico quanto è avvenuto il 28 novembre al Parlamento europeo che ha dichiarato di voler “esortare la comunità internazionale ad adottare azioni rapide e decisive per affrontare l’allarmante escalation” della guerra in Ucraina. Il buon senso, di cui sembra essersi persa traccia a Bruxelles e a Strasburgo, porterebbe a immaginare un programma di seria azione diplomatica, possibilmente elaborato da chi queste cose le sa fare. Invece il Parlamento europeo ha pensato bene di adottare una risoluzione non legislativa (approvata con 390 voti favorevoli, 135 contrari e 52 astensioni) per “rafforzare il sostegno militare all’Ucraina”. Il comunicato ufficiale diramato a Bruxelles rimarca testualmente che “i deputati chiedono all’Ue e ai suoi Stati membri di rafforzare il loro sostegno militare all’Ucraina, anche attraverso la fornitura di aerei, missili a lungo raggio, compresi i missili Taurus, moderni sistemi di difesa aerea, fra cui i Patriot e i Samp/T, sistemi di difesa antiaerea portatile (Manpads), munizioni e programmi di formazione per le forze ucraine”. Nella risoluzione si propone inoltre “che i Paesi Ue e gli alleati della Nato si impegnino a sostenere l’Ucraina militarmente, sia collettivamente che individualmente, con non meno dello 0,25% del loro Pil annuale”.
A completamento del quadro bellicista, sempre testuale nella nota del Parlamento europeo, si legge infine che “i deputati accolgono con favore la decisione del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, di consentire all’Ucraina di utilizzare sistemi missilistici avanzati su obiettivi militari all’interno del territorio russo e chiedono ai Paesi Ue di fare altrettanto”. A leggere con attenzione sembra incredibile, come essere piombati nel prologo di un romanzo tra catastrofismo e fantascienza. Eppure è vero, come è vero che a rafforzare i venti di guerra è un voto assolutamente “bipartisan”. Per il cittadino comune è assai difficile capire cosa ispiri questa voglia di guerra, ben sapendo ormai che ogni decisione di questo tipo accresce la tensione e provoca una recrudescenza (annunciata) degli attacchi da parte russa.
Tutto ciò mentre, nel suo saluto finale come uscente Alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell rende noto che la spesa per il sostegno a Kiev è stata nel 2024 di ben 125 miliardi di euro e “nel 2025 sarà ancora più salata”. Questo in un’Europa che appare sempre più confusa, che dimostra ogni giorno di non saper gestire una crisi evidente derivata dallo shock energetico e geopolitico causato dall’immedesimarsi in un clima conflittuale che non dovrebbe essergli proprio e che sta portando a un sempre più aspro irrigidimento delle barriere e dei mercati. L’esempio più eclatante arriva dalla Germania, in preda a una crisi economica senza precedenti derivante soprattutto dal taglio delle risorse energetiche. Ma anche gli indicatori delle altre economie europee tradizionalmente più forti danno chiari segni di sofferenza. Anche l’Italia, dove la crescita del Pil si è praticamente fermata nel terzo trimestre del 2024, dovrebbe riflettere. Gli ultimi dati dell’Istat mostrano che a novembre è peggiorato il clima di fiducia dei consumatori (con l’indice sceso da 97,4 a 96,6) e delle imprese (indice passato da 93,4 a 93,1). Anche la stessa Confindustria parla di “deciso peggioramento delle aspettative tra le grandi imprese industriali associate” con il 46,9% delle industrie che prevede una nuova contrazione della produzione rispetto a ottobre.
In questo contesto comunitario fuori controllo arriva anche la voce della Presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, che non trova niente di meglio che esortare i leader politici europei ad acquistare più prodotti realizzati negli Stati Uniti. Lagarde, che qualcuno malignamente pensa consigliata da qualche suo potente predecessore, lo fa in una intervista al Financial Times paventando una guerra commerciale su vasta scala che rischia di spazzare via la crescita economica globale. La ricetta, secondo la Presidente della Bce, non è quella di trovare più stabilità e sensatezza politica all’interno dell’Ue, bensì quella secondo cui l’Europa deve affrontare il mandato di Donald Trump con una “strategia da libretto degli assegni”, vale a dire offrendosi di “acquistare alcuni beni dagli Stati Uniti” a cominciare dal gas naturale liquefatto (Gnl) e da armi e attrezzature per la Difesa. Poco importa che un’inchiesta del Sole 24 Ore dell’aprile 2022 abbia spiegato che il gas americano costa il 50% in più di quello russo e in un’altra inchiesta dell’8 marzo 2023 abbia reso noto che, grazie alla guerra in Ucraina e alle sanzioni, il Gnl americano ha sostituito metà delle forniture di Gazprom e il petrolio a stelle e strisce arriva a ritmi sempre più sostenuti.
Preoccupata dell’andamento dei mercati, facendo eco a Trump, Lagarde si chiede: “Come si fa a rendere di nuovo grande l’America se la domanda globale sta calando?”. Forse, per un europeo, sarebbe più indicato chiedersi: come si fa a rendere di nuovo grande l’Europa?
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