Oggi a Cormons Cerchia racconta gli italiani nei Balcani dopo l’8 settembre
TRIESTE Si terrà oggi a Cormons il secondo evento degli Appuntamenti con la Storia 2024 promossi da Friuli Storia: alle 18.30 nella sala civica il docente Giovanni Cerchia, ordinario di Storia contemporanea all’Università degli Studi del Molise e direttore scientifico della Fondazione Giorgio Amendola, terrà una lezione sull’Occupazione italiana nei Balcani 1941-1943. Ingresso libero, info friulistoria.it. Ecco un estratto dell’ultimo libro di Cerchia “Il generale Amico, la guerra dei Balcani e l’8 settembre ”.
I Balcani e l’Egeo furono i principali scenari operativi del Regio Esercito nel corso della Seconda guerra mondiale, impegnando ben tre Armate, più di 32 divisioni e oltre 600 mila soldati nel momento di punta dell’occupazione, ridotti poi a circa la metà alla vigilia della resa senza condizioni. Un dispiegamento militare che, per quanto rilevante, non ne impediva però la neutralizzazione da parte tedesca all’indomani dell’8 settembre 1943, con la cattura e la deportazione di un considerevole numero di soldati italiani. Fu un colpo di mano ben preparato e condotto con estrema efficienza anche in Italia e in Francia, oltre che in tutta l’area adriatica .
Anche quando riuscivano a sfuggire all’immediata cattura tedesca, le truppe italiane sbandavano o si arrendevano prive di ordini e riferimenti precisi; oppure combattevano, spinte dal senso del dovere, dall’indignazione, finanche dalla disperata certezza di non avere altre vie d’uscita. In ogni caso, saltate le tradizionali catene del comando, ogni singolo soldato ingaggiava, per citare Nicola Labanca, «una discussione con sé stesso e con il passato nazionale», assumendosi una responsabilità che, nei fatti, inaugurava la stagione della Resistenza italiana e dava fondamento a una nuova identità collettiva. Insomma, «l’8 settembre 1943 tutto finisce», ma allo stesso tempo davvero «tutto inizia», scrive Giuseppe Filippetta, compresi un nuovo quadro di valori e un nuovo esercizio della sovranità legittimati dal rifiuto di collaborare, dalla disobbedienza agli ordini considerati disonorevoli e illegittimi, dall’insubordinazione di fronte alle requisizioni e alle razzie, dalla scelta estrema di resistere in armi. Decisioni che differivano a seconda delle condizioni e dei contesti, ma che, innegabilmente, trasformavano molti soldati italiani travolti dall’8 settembre nell’avanguardia del nascente movimento partigiano, destinato poi a incrociare la mobilitazione dei civili e l’iniziativa dell’antifascismo. Si trattava di una primissima Resistenza patriottica che, tra le altre cose, fu particolarmente rilevante in alcune aree del Mezzogiorno d’Italia. In tutti gli altri scenari operativi, non esclusi i Balcani, i soldati italiani erano invece stretti in una morsa e, rimarca Igor Gobetti, potevano «contare solo su sè stessi», accerchiati dal movimento partigiano o perseguitati dagli ex alleati dell’Asse. Questi ultimi, oltre a cogliere l’occasione per reclutare manodopera coatta, avevano tutto l’interesse a mettere rapidamente in sicurezza il territorio, vendicarsi del recente tradimento e, in qualche caso, regolare vecchi conti in sospeso.
Gli scampati si davano alla macchia, una significativa minoranza aderiva al movimento partigiano titino (come accadeva alle unità della Divisione «Venezia» e ai superstiti della «Taurinense» che si fondevano per costituire la Divisione «Giuseppe Garibaldi»). In pochi passavano dalla parte dei tedeschi. L’«Acqui» del generale Gandin impegnava duramente l’ex alleato dell’Asse a Cefalonia, pagando poi il terribile prezzo di sangue, compreso l’eccidio della gran parte dei superstiti della sua divisione. Un episodio analogo accadeva a Spalato, dove, pur con qualche indecisione iniziale, la Divisione «Bergamo» si schierava dalla parte del movimento partigiano e rifiutava di arrendersi fino al 26 settembre 1943.
In risposta a questo atto di ribellione, la 7ª Divisione SS «Prinz Eugen» passava poi per le armi 308 soldati del Regio Esercito, tra i quali 47 ufficiali (compresi tre generali) la 7ª SS incarnava in maniera esemplare la nostalgia imperiale asburgica e il conseguente risentimento anti-italiano per la sconfitta nella Grande guerra, rinnovato e radicalizzato dall’adesione ai miti razziali del nazionalsocialismo. Un paio di settimane prima dei fatti di Spalato, la «Prinz Eugen» si era già distinta a Dubrovnik (Ragusa) nei combattimenti affrontati con la 32ª divisione «Marche» del generale Giuseppe Amico, «un energico ufficiale», ricordano Becherelli e Formiconi, trucidato a tradimento il 13 settembre 1943, a scontri ormai conclusi con la resa italiana. —