In un libro luci e ombre di Trieste imperiale
Il ritratto di Trieste nei suoi anni d’oro viene proposto dalla storica triestina Marina Cattaruzza, nel saggio “Il “primo porto dell’impero” e le sue trasformazioni urbanistiche: Trieste 1875-1914 (e oltre)” pubblicato su “Quaderni giuliani di storia” 2024.
Il lavoro di Cattaruzza, docente emerita dell’Università di Berna comprende il periodo in cui la città era la terza per numero di abitanti della monarchia asburgica: 239.733 nel 1918 nei dodici distretti cittadini e l’altopiano. Più di quanti ne conti attualmente la provincia di Trieste, stando ai dati del 2024, cioè 228.952 .
Cattaruzza focalizza la sua attenzione al periodo successivo all’abolizione del Portofranco (1891) in cui «furono poste le basi per la trasformazione della città in uno dei più importanti porti dell’Europa continentale».
Trieste era suddivisa in sei distretti urbani, sei suburbani e un ampio “territorio” nettamente rurale, compattamente sloveno e a bassa densità abitativa. Dal punto di vista sociale San Giacomo e Cittavecchia erano proletari, i rimanenti erano zone residenziali del ceto impiegatizio e della borghesia, con singoli interventi di edilizia popolare (San Vito e Barriera Nuova). Il resto del proletariato era disseminato nei rioni semirurali di Farneto e San Giovanni e, in un secondo tempo, a ridosso degli insediamenti portuali e industriali di Servola.
Ma come si presentava la città al viaggiatore? In chiaroscuro: Cittavecchia è «uno sgradevole labirinto di vicoli stretti e bui, che fa l’effetto di una tana o di una cantina sotterranea in cui si entra da ridenti e soleggiate colline», secondo la scrittrice tedesca Ricarda Huch. Non è da meno il critico letterario e penna illustre del Piccolo, Silvio Benco che la descrive come «un grande impasto di miserie e sudiciume, nel quale la vita umana brulica come un fermento... Nella parte bassa del quartiere la vita diurna ha un alcunché di nauseante e di corrotto, che non si spiega bene se non pensando alla vita notturna, quando le innumerevoli bottegucce si chiudono e gli innumerevoli lupanari si illuminano, quando il cencioso bazar cede al mercato delle schiave dipinte, che si vedono gesticolare in tutti i trivi e a tutte le finestre». Ma il distretto non era solo questo: ci vivevano artigiani (cappellai, orefici, tappezzieri), personale di servizio (camerieri, barbieri, cuochi, osti), e gente di mare (nocchieri, pescivendoli, fuochisti, marinai, macchinisti, velaie).
È stridente il contrasto del borgo antico e le sue anguste viuzze con le larghe ed eleganti strade contornate da superbi palazzi del Borgo Teresiano e del Borgo Giuseppino, lungo le rive, che ospitano residenze e sedi dei grandi finanzieri, uno su tutti, Pasquale Revoltella, che contribuì a realizzare il canale di Suez.
Eppure questi due quartieri simbolo della Trieste mercantile e finanziaria circondano Cittavecchia. I giudizi di Huck e Benco rivelano, sottolinea Cattaruzza: «Accanto alla condanna morale, estraneità e senso di timore: lo stesso, che spingeva i ceti benestanti a non avventurarsi per quei vicoli dove i segni distintivi del ceto sociale sarebbero stati vissuti come provocazione».
Mentre cresce la prosperità nei palazzi, in Cittavecchia e anche a San Giacomo, quartiere sorto per ospitare braccia per le fabbriche e la cantieristica, che ospita fabbri ferrai, carpentieri, fonditori, si vive male. Lo testimoniano la bassa la natalità e l’alta la mortalità infantile, ma anche l’imperversare della tubercolosi e le ricorrenti epidemie di colera.
In proposito maggiori dati si possono trovare nel saggio di Cattaruzza “Nascere, vivere, abitare e morire nella Trieste del “lungo Ottocento”” (Archeografo Triestino, serie IV, 2022). Un disagio sociale, comprovato dall’alto numero di suicidi, che esploderà con lo sciopero dei fuochisti del Lloyd del 1902, autentica rivolta che coinvolse presto altra gente di mare. La feroce repressione fece 14 morti.
Diversa la situazione di Barriera Vecchia, quartiere misto sotto il profilo sociale, mentre Barriera Nuova ostenta l’aspetto borghese con San Vito e Cittanuova. Anch’essi condividono una caratteristica con gli altri quartieri: la bassa natalità. Compensata dalla continua immigrazione, che popola tutta l’area tra San Giacomo, Servola e Sant’Anna, prima denominate “Siberia” per la scarsità di abitanti. Poi le guerre e il lungo dopoguerra segnano la città.
Solo i borghi Teresiano e Giuseppino con le loro geometrie mantengono la fisionomia originaria. Altri sono totalmente diversi. Oggi, conclude Cattaruzza, è difficile riconoscere quella Cittavecchia in quella attuale che il piano Urban ha trasformato. Come è difficile immagine come fosse la “Siberia” andando da San Giacomo a Servola.
La città è cambiata, però è rimasta la multiculturalità che si può cogliere nei volti e nelle sue policrome architetture. —