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Hello Kitty, fenomenologia della prima influencer (muta)

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È la prima influencer globale, anche la più ricca e conosciuta nel mondo. Uno strabiliante e unico fenomeno di marketing. Hello Kitty, la micetta bianca con un fiocchetto rosso sull’orecchio sinistro, l’1 novembre ha gloriosamente compiuto 50 anni. E mentre tutte noi allo scoccare del gong abbiamo ricevuto gli auguri dalle madri della chat di classe, lei no. Alla cena ufficiale a Buckingham Palace per l’imperatore del Giappone Naruhito e l’imperatrice Masako, re Carlo III si è premunito di iniziare il discorso ufficiale con gli auguri a Hello Kitty. Lunga vita all’icona pop del Sol Levante, che poi non è affatto come si crede un gattino bianco, ma è la versione antropomorfizzata di una bambina. Che ha fatturato nel suo piccolo 80 miliardi di dollari. È seconda solo ai Pokemon, mentre Mickey Mouse rimane senza podio al quarto posto. Come se non bastasse dal 1983 è ambasciatrice Unicef e pure ambasciatrice del Turismo per il governo nipponico. Una vita di intensi successi, che noi manco ci sogniamo, per la divinità del marketing. E tutto questo, badate bene, senza mai aprire bocca.

Sì, perché lei la bocca non ce l’ha. Così la disegnò la giovane illustratrice Yuko Shimiza nel 1974 per la multinazionale Sanrio, che allora stava attraverso un momento di crisi profonda. All’inizio esplose la kitty-mania tra le bambine, presto divenne «l’idola» degli adulti. Per quello sguardo sempre uguale, quasi assente, una non-espressione dove ognuno può proiettare i suoi sentimenti. Dolore o gioia. Un’ascetica eterea presenza. «Comunica con il cuore», ha spiegato il papà, Shintaro Tsuji, orfano, nato nel 1927 nella prefettura di Yamanashi, e classico self-made man.Le femministe più di una volta hanno gridato che era un esempio anti educativo, la ragazza-micetta costretta a restare una Lolita muta. Perpetuamente infantile e sottomessa. Senza voce in capitolo, mai. Invece come la Gioconda, è diventata la perfetta espressione del concetto di vuoto Zen, estrema affermazione dell’essere, contenitore che tutto trattiene.E non stupisce che a mezzo secolo di distanza nel sembrare (solo superficialmente) piattamente ordinaria sia riuscita a conquistare il mondo. E lo showbiz. La amano star come Lady Gaga, Taylor Swift, Paris Hilton, Katy Perry, Cameron Diaz, che ne hanno indossato collane, borsette, gonne. Iconico è il micro reggiseno portato da Dua Lipa e fatto sfilare da GCDS.I giapponesi, sofisticati e complessi, hanno legato la popolarità al celebre concetto di Kawaii, ossia il potere della «graziosità», dell’adorabilità, suvvia il carino, categoria estetica imprescindibile, nota in Giappone fin dal Seicento. Ken Belson e Brian Bremner nel loro saggio: Hello Kitty: The remarkable story of Sanrio and the billion dollar feline phenomenon hanno studiato non solo la principessa da coccolare per le più piccole, ma l’entità evocativa di un disperato bisogno di qualcosa di gentile da tenersi accanto, in un mondo dove la gentilezza è sconosciuta.

Intanto la micetta-bambina con i completini in stile Swinging London ha influenzato mezzo secolo di moda con importanti collaborazioni da Louis Vuitton a Adidas, da Balenciaga a Swarovski. Sono stati creati più di 10 milioni di prodotti, venduti in 130 Paesi. A cominciare dal primo oggetto: un portamonete trasparente in vinile. Poi un crescendo di pantofole, pigiami, piumoni, quaderni e matite, portapillole, piatti, pentole, televisori, copri water e carta igienica. Qualunque oggetto di uso quotidiano, pure una carta di credito. Fino ai gioielli preziosi, macchine, vini e aerei di linea (la taiwanese Eva Air). E su Spotify si può ascoltare la compilation della sua musica preferita. Leggere Nietzsche con sottofondo di canzoni selezionate da Kitty è lisergico.Per poi inevitabilmente scivolare nel magico mondo del trash: capsule dentarie, lenti a contatto, strabilianti misura-pressione, kalashnikov giocattolo dall’impugnatura rosa e pelosa. Parchi a tema e infiniti raduni di cosplay. Un successo fantascientifico. Tokyo la celebra con una mostra al National Museum (fino al 24 febbraio) dall’emblematico titolo «Quando cambio io, Kitty cambia», frase da scuola socratica, come se fosse lo specchio del nostro desiderio di restare bambini per sempre. A Roma ha inaugurato Art of Play, il più grande percorso immersivo nel magico mondo rosa confetto, con installazioni interattive e un Cafè dai colori pastello con dolcetti a tema. Mentre a Londra si parla di «kittificazione» con la mostra Cute alla Somerset House, dove tra oggetti (c’è anche un abito da sposa) e opere di artisti, si comprende la portata di un fenomeno social dalle proporzioni mastodontiche. Tutto è dedicato alla cuteness, l’adorabilità. Così zuccherosa e soprattutto instagrammabile. Un desiderio di purezza che sfiora l’ambiguità, in una ricerca spasmodica di aggrapparsi a un’infanzia senza tempo, un presente eterno e rassicurante. Così è rassicurante la biografia creata intorno al personaggio. Kitty White vive con i genitori nella periferia di Londra. È alta cinque mele e ne pesa tre. Ha una sorella gemella Mimmy (con fiocchetto giallo), un gatto, Charmy Kitty, adora leggere, viaggiare e cucinare i biscotti. E naturalmente in tutto questo miele non manca il fidanzato, Dear Daniel. Tenera, innamorata e muta. Il sogno segreto di ogni uomo. Tanti auguri Kitty.

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