Kogasso, una storia non solo di pugni: il bimbo partito dal Congo è un campione
VOGHERA. Il sogno coltivato fin da quando, ancora bambino, era arrivato a Voghera, ospite degli zii Guj e Silvye, si è realizzato sul ring dell’Allian Cloud Arena di Milano, dove Jonathan Kogasso ha conquistato la corona italiana dei pesi massimi leggeri. Quel bambino partito dal Congo ricco solo di tante speranze, oggi ha 29 anni ed è stato capace di battere ai punti il rivale Roberto Lizzi, in un match di rara intensità e bellezza.
Kogasso, il flash più bello di quel match.
«L’accoglienza all’ingresso sul quadrato. La folla scandiva il grido di battaglia: “Ali! Ali! Bomaye!” che significa: “Mandalo al tappeto!”, che che accompagnò Cassius Clay nel match di Kinshasa contro Foreman. Con Lizzi è stata durissima, ma non mi ha lasciato tracce sul fisico o sul volto. Ho sentito solo un sinistro alla prima ripresa che però ho assorbito presto. Invece il volto del mio avversario era tumefatto».
A che età è arrivato in Italia?
«Avevo otto anni quando mamma Jacqueline mi accompagnò all’aeroporto di Kinshasa, la capitale del Congo dove abitano i miei. Piangevo disperato, non volevo partire. Dissi con rabbia a mia mamma che non mi voleva bene, salii sull’aereo senza guardarla. Era vero l’opposto. Mi mandava dagli zii in Italia perché mi voleva bene. Dieci anni dopo sono tornato a trovare i miei genitori, mia madre, mio padre Jean Pierre e i miei fratelli, è stato un momento molto commovente. Li porto tutti nel cuore, da quando ho iniziato a guadagnare mando ogni mese dei soldi in Congo».
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Il suo primo sport però non è stata la boxe.
«No. Ho iniziato col calcio, la mia prima passione, nella squadra dei Barnabiti, poi nella Vogherese e infine a Lungavilla. Ho abbandonato perché ero stufo di vedere giocare ragazzi che non erano più bravi di me ma con più “sponsor”».
La scelta del pugilato?
«Il mio amico Maurizio Filal cercò un’intera estate di convincermi a provarci. Io ero contrario, non volevo fare a botte, cambiai idea quando iniziai a frequentare la palestra della Cavallerizza a Voghera. Quando mi presentai, mi fecero capire che dovevo guadagnarmi ogni spazio, nello spogliatoio, sul ring, in palestra. Dopo qualche mese avevo il rispetto di tutti, mi allenavo duro».
Chi è stato il primo a credere in Kogasso?
«Il maestro Livio Lucarno vide qualcosa che solo uno con la sua esperienza poteva individuare. Mi disse che dopo un anno di allenamento avrei combattuto, non ci credevo, ma aveva ragione lui. Poi Vincenzo Gigliotti. Mi prese che avevo appena perso in semifinale per l’italiano dei mediomassimi e mi ha portato al titolo».
Quante medaglie vinte da dilettante?
«Due d’argento e due di bronzo agli italiani. D’accordo con Vincenzo ho tentato l’avventura olimpica con la nazionale congolese prima di passare pro. Ai Mondiali in Russia sono stato eliminato ai sedicesimi. Poi mi hanno escluso per ragioni politiche».
Solo pugilato nella sua vita lavorativa?
«No. Lavoro alla biblioteca della facoltà di Giurisprudenza a Pavia. La boxe per adesso non mi permette di vivere e ho un figlio di due anni che si chiama Noah. Mi alleno prima e dopo il lavoro».
Il match che ricorda più volentieri e quello più amaro?
«La vittoria ai punti contro il moldavo Sinigur a Monza dello scorso anno e quella vittoria per il titolo del Mediterraneo, il mio primo titolo contro Babic. Non mi sono piaciuto contro Serhii Ksendzov lo scorso settembre, pur vincendo. Gigliotti però dice che è stata utile per preparare la vittoria contro Lizzi. Adesso sogno la sfida per il mondiale».