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La rincorsa atomica dei mullah

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Israele è determinato a regolare i conti con i propri nemici, mentre alla Casa Bianca sta per tornare Trump. Il rischio che la teocrazia iraniana acceleri verso «la Bomba» è alto.

In pieno conto alla rovescia per l’insediamento del nuovo presidente americano, Donald Trump, le cancellerie globali provano a vaticinare le priorità della nuova amministrazione o accelerano l’esecuzione di vecchi piani. Nel caso dell’Iran, che ormai guerreggia con Israele non più solo per delega, ma anche direttamente, la questione è particolarmente delicata.

Da un lato, Teheran negli scorsi anni ha portato avanti con decisione il progetto atomico. Dall’altro, molto è cambiato in tutto il Medio Oriente dopo i massacri del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas, e Israele ha scelto di affrontare con grande determinazione i suoi nemici. Tra i cambiamenti più vistosi c’è anche il modo in cui i mullah concepiscono la loro guerra contro Israele. La teocrazia iraniana ora sa che la sua strategia di guerra per delega è fallimentare, che i suoi missili balistici convenzionali mancano di precisione e forza, e che Israele può bombardare qualsiasi obiettivo all’interno dell’Iran, forse con l’eccezione degli impianti di arricchimento dell’uranio del regime clericale, che si trovano in siti sotterranei a grandissima profondità (è il caso del sito di Fordow, sepolto sotto una montagna).

Sta di fatto che, anche nel corso del raid in Iran del mese scorso, Israele non ha attaccato i siti nucleari iraniani. Né ha colpito l’impianto petrolifero sull’isola di Kharg, attraverso il quale passa circa il 90 per cento delle esportazioni di petrolio della Repubblica islamica. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha insomma evitato di affondare il colpo per non scatenare un’escalation, forse anche in seguito di pressioni americane. Ma che gli attacchi aerei israeliani inducano l’Iran a ritardare la corsa al nucleare è una speranza tutta da verificare. Un’eventualità diametralmente opposta è che, di fronte alla fermezza israeliana e al ritorno di Trump alla Casa Bianca, il regime iraniano tenti il tutto per tutto e prema invece il pedale dell’acceleratore. Lo paventano Reuel Marc Gerecht e Ray Takeyh, due grandi esperti di questioni iraniane, che vi hanno dedicato un editoriale del Wall Street Journal. Secondo i due studiosi, il tempo non è più dalla parte di Israele. Per la prima volta, infatti, importanti settori della società iraniana stanno chiedendo pubblicamente allo Stato di costruire armi nucleari.

Il 2 ottobre, Javan, un giornale che è portavoce della Guardia rivoluzionaria, ha sottolineato che, visto l’uso israeliano di «tecnologie militari devastanti per stabilire un nuovo ordine... una delle opzioni immediate è un cambiamento nella dottrina nucleare dell’Iran». Ha aggiunto che «mentre la dottrina nucleare dell’Iran negli ultimi 50 anni (compreso l’era Pahlavi) si è concentrata sull’uso pacifico della tecnologia nucleare, oggi Teheran ha la capacità, il contesto e l’opportunità per una trasformazione immediata di questo programma». Una settimana dopo, 39 parlamentari hanno chiesto al Consiglio supremo della Sicurezza nazionale di cambiare la dottrina difensiva dell’Iran. Un coro di vip iraniani è successivamente emerso a favore dello sviluppo della bomba atomica per contrastare Israele e gli Stati Uniti.

A ciò si aggiunge che sembra essere in atto un’epurazione all’interno degli apparati di sicurezza della Repubblica islamica. Questo, insieme a un’intensificazione della sorveglianza di chi ha accesso al programma nucleare, consentirebbe al regime clericale di sentirsi più sicuro se decidesse che costruire una bomba è una priorità urgente. La paura delle fughe di notizie è infatti una delle ragioni per cui la Guida suprema Ali Khamenei è stata cauta nel completare il progetto che è andato avanti per 30 anni nonostante enormi pressioni esterne. In questa complessa e sempre più instabile equazione va calata la carta Trump, il quale è il principale artefice degli Accordi di Abramo che sancirono una storica normalizzazione nei rapporti tra sauditi e israeliani in chiave anti-Iran, e nel 2020 fece eliminare il generale iraniano Qassem Soleimani, a capo della Forza Quds, una componente del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica. L’imprevedibilità del nuovo presidente potrebbe rallentare le aspirazioni nucleari del regime. Ma la paura potrebbe spingere i mullah a tentare lo scatto verso la bomba.

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