Ora i migranti africani hanno preso di mira gli Stati Uniti
L’invasione delle popolazioni africane verso il mondo occidentale non è un pasticciaccio brutto solo per l’Europa, e per l’Italia in particolare. Parte di quei disperati salta da una costa all’altra dell’Atlantico e - sopravvivendo a un viaggio della speranza attraverso l’America latina - raggiunge il confine tra Messico e Stati Uniti. Anno dopo anno, sono sempre di più quelli che ci riescono. Secondi i numeri forniti dallo US Customs and Border protection data, se nel 2022 erano circa 13 mila i migranti africani in attesa di valicare, nel 2023 questa cifra era già lievitata a 58 mila unità. Una cifra residuale rispetto a chi si è imboscato per sfuggire a qualsivoglia controllo. Infatti si calcola in 520 mila, di cui 120 mila minorenni, i migranti giunti lo scorso anno nel continente. Come fa ad arrivare fin lì qualcuno che sta in Mauritania, Camerun, Guinea, Ruanda, Ghana, Senegal o Nigeria, solo per citare alcuni dei Paesi di provenienza? Niente misteri, in tempi di smartphone e TikTok. Sono i migranti stessi a postare l’avventura - che può durare anche cinque anni - sulla piattaforma cinese. Centinaia di «influencer» e «istruttori» descrivono peripezie e ostacoli, danno consigli sui «canali» da seguire, raccontano metro dopo metro quello che accade lungo la rotta verso il «Mexico-Us border», ultima tappa prima di realizzare l’American dream. Partono dai loro villaggi, poi solcano in qualche modo l’oceano o nei casi più fortunati volano verso le tappe intermedie: Cuba fa spesso da «ponte». Da lì vengono spostati verso la terraferma con navi o ancora via aerea. I veri guai cominciano quando devono marciare settimane o addirittura mesi in una moltitudine di incognite, e le maggiori si rivelano nelle foreste equatoriali. Il passaggio quasi obbligato è dal cosiddetto «Buco di Darién», al confine tra Colombia e Panama, uno dei luoghi più impervi della Terra: giungla, serpenti velenosi, assenza di strade, di Gps e di segnali possono essere fatali. I video mostrano queste lunghe marce nella giungla, talvolta percorse insieme ad altri migranti sudamericani, scansando gli scheletri di chi prima di loro è stato vinto dalla fatica, mentre lungo i fiumi dal difficile guado galleggiano cadaveri di uomini, donne e bambini.
Non solo. Secondo le stime più recenti della Homeland Security statunitense, sulle circa 11 milioni di persone presenti illegalmente negli Stati Uniti ve ne sono almeno il doppio che hanno dovuto affrontare il carcere e la riduzione in schiavitù ben prima di scorgere il grande Muro lungo il confine Usa. L’America è un lusso che si può pagare con la vita, ma comunque costa molto caro anche in termini di denaro: i tariffari dei trafficanti che consentono in teoria agli immigrati di attraversare senza controlli le numerose frontiere, vanno dagli 8 ai 20 mila dollari. Un patrimonio, per molti.
Arrivare al famoso confine è dunque già un’Odissea. E una volta lì? «Nonostante gli Stati Uniti abbiano aumentato i voli di deportazione» scrive in proposito il New York Times «il governo ha dovuto continuare a rilasciare molte persone perché i centri di detenzione per immigrati sono pieni e le famiglie non possono essere rinchiuse per periodi prolungati. È anche estremamente difficile deportare persone verso Paesi dell’Asia e dell’Africa, a causa della lunga distanza e della mancanza di consenso da parte di molte nazioni». Il trucco per ingannare i database statunitensi è inoltrare una richiesta di asilo, consapevoli che mediamente passeranno due o tre anni prima che lo US Immigration and Customs Enforcement (Ice) – l’Agenzia deputata al controllo dell’immigrazione – adotti una decisione definitiva, a causa dell’enorme mole di arretrati nei tribunali americani. Un dato su tutti, per inquadrare la situazione, ce lo offre il Senegal, Paese che condivide con la Mauritania il record di africani arrestati alla frontiera meridionale degli Stati Uniti, seguiti da Angola e Guinea. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) segnala un forte aumento delle domande di asilo che, per i soli senegalesi, sono salite dalle 773 del 2022 alle 13.224 nei primi nove mesi del 2024. Ebbene, di questi, lo scorso anno appena 140 sono stati rimpatriati.
Ma com’è noto, qualcosa dovrebbe cambiare. Sebbene non sia ancora rientrato alla Casa Bianca, infatti, il presidente in pectore degli Stati Uniti Donald Trump ha già promesso di «portare a termine il lavoro» iniziato quasi dieci anni fa (e in parte proseguito anche sotto la presidenza Biden), per «garantire la sicurezza delle nostre frontiere e le espulsioni di immigrati illegali verso i loro Paesi d’origine». Nel programma repubblicano 2024 non si è parlato (o comunque non soltanto) di ultimare il grande Muro al confine con il Messico. Adesso si promuove una «incisiva politica di respingimenti» partendo dalla costruzione di «nuovi centri di detenzione nelle metropoli americane», dove saranno ospitati gli irregolari fermati dalle autorità e in attesa di essere espulsi. Per garantire l’efficacia del progetto, a capo della US Immigration and Customs Enforcement il nuovo presidente ha annunciato la nomina di Tom Homan, già conosciuto come «zar delle frontiere», pronto per la più grande operazione di espulsione di immigrati irregolari nella storia degli Stati Uniti. Ma non sarà per niente facile, considerando che accanto alle 11 milioni di persone da espellere, tante e tante ancora ne stanno arrivando al confine. E questo è dovuto principalmente a un problema che si chiama Nicaragua.
Per gli africani la rotta più popolare (ben sponsorizzata su TikTok) passa da questo Paese centramericano ritenuto «sicuro e praticabile» perché è lo stesso presidente Daniel Ortega a sfruttare il fenomeno. Lo scopo? Possedere una leva migratoria, che ne rafforza il potere personale, e al tempo stesso danneggia gli Stati Uniti.Ortega, 78 anni, è tornato al governo in Nicaragua dopo che negli anni Ottanta aveva personalmente animato la guerriglia rivoluzionaria sandinista d’ispirazione marxista, che puntava a fare del Paese latinoamericano una seconda Cuba e del suo presidente un nuovo Castro. Un fatto inaccettabile per Washington, che all’epoca rispose armando i Contras (gruppi armati controrivoluzionari) attraverso la Cia per rimuovere la minaccia comunista. Dal 2007 Daniel Ortega è nuovamente il presidente del Nicaragua, seppur riconfermato da elezioni non riconosciute né dagli Stati Uniti, né dall’Ue, né dalle organizzazioni internazionali. La sua presidenza si è trasformata in una dittatura personalistica che, per dirne una, nell’agosto di quest’anno ha portato alla chiusura di 1.500 ong (in maggioranza religiose) ritenute un pericolo per la stabilità nicaraguense perché «infiltrate da agenti stranieri finanziati dagli Stati Uniti».Dopo la pandemia, ha iniziato una politica aggressiva di accoglienza di tutti quegli immigrati che intendono raggiungere gli Stati Uniti: prima ha rimosso le restrizioni per i cubani e, nel 2023, ha eliminato i requisiti di visto per altre nazionalità, inclusi gli haitiani. Cosicché oggi qui si concentra circa il 90 per cento di tutta la migrazione irregolare che punta al confine messicano. Il sistema Ortega è ben spiegato dal politologo nicaraguense in esilio Manuel Orozco: «Ortega ha incaricato una società privata con sede a Dubai di formare il personale dell’aviazione civile del Nicaragua per gestire le procedure di immigrazione su aerei charter. Di conseguenza, tra giugno e novembre 2023, il numero di voli è aumentato da 45 a 93, con un flusso di oltre 100 mila passeggeri provenienti da Port-au-Prince (Haiti), L’Avana (Cuba) e Turks e Caicos (da cui arrivano soprattutto haitiani, ndr)». Impervia è la strada dei migranti per gli Stati Uniti, ma anche difendersi contro chi li fomenta e utilizza come arma, è dura.