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Contro la mia volontà: il lato oscuro degli aborti in Italia

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di Alessia de Antoniis

Contro la mia volontà è il libro-inchiesta di Gabriele Barbati appena pubblicato da Paesi Edizioni, che raccoglie documenti e testimonianze inedite sul caso dei “cimiteri dei feti”, a partire da quello del Flaminio di Roma. Una situazione diffusa da decenni in tutta Italia. I paletti sono: l’art. 1 del Codice Civile, per cui La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita. I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita; la L. 194/78 sull’interruzione volontaria di gravidanza e il DpR 285/90 sul Regolamento di polizia mortuaria. All’interno di questi confini, una ragnatela di accordi privati tra aziende ospedaliere, associazioni religiose e aziende di smaltimento rifiuti; leggi regionali, comunali, ideologia, politica e credenze religiose. In mezzo, ancora una volta, le donne. Quelle mai nate da un uomo, neanche da una costola, e che, come in questo caso, subiscono l’ennesima violenza.

Contro la mia volontà di Gabriele Barbati è un libro irritante, urgente e necessario. “Ho cercato di andare oltre i significati iniziali di questa vicenda, ascoltando tutte le voci coinvolte: donne, medici, attivisti e burocrati. Il mio obiettivo è stato portare alla luce realtà nascoste, dando uno spazio di dialogo e confronto su un tema complesso. È importante che si continui a parlare di questi argomenti in modo informato e costruttivo”. Questo l’obiettivo di Gabriele Barbati. Questo quello che si ritrova nel suo ottimo lavoro.

Oltre che dall’interesse del giornalista, il libro nasce da una riflessione personale. “Nel 2017, durante la mia prima esperienza come padre, vivevo negli Stati Uniti. Alla Casa Bianca c’era Trump. Come molti genitori, avevo preoccupazioni legate alla salute del nascituro. Ti informi anche sull’aborto in caso di gravi malformazioni. Quell’esperienza mi ha fatto rendere conto di quanto già allora, prima della sentenza della Corte Suprema del 2022, negli Stati Uniti questa libertà fosse compromessa. Le leggi locali, i tagli ai fondi e lo sfratto di alcune cliniche, avevano svuotato di significato il diritto all’aborto in molte aree del Paese.

Con la nostra seconda figlia, ho sperimentato da vicino la realtà degli ospedali italiani. Questo mi ha reso particolarmente sensibile al tema. Quando la notizia sulle croci del cimitero Flaminio di Roma è emersa, l’ho accolta con partecipazione, pur essendo uomo.

Ciò che accade in Italia ricorda i mezzi per depotenziare i risultati della Roe v. Wade negli Stati Uniti: gli integralisti cattolici si adoperano per rendere inapplicabile una legge dello Stato…

Quando, con un emendamento a un decreto attuativo del PNRR, la maggioranza di Governo ha introdotto la possibilità per i pro vita di entrare nei consultori, si è detto che è in applicazione della legge 194. Il che è vero, perché la 194 all’articolo 1 parla di tutela della vita fin dal suo sorgere, e indica proprio la possibilità di collaborare con delle associazioni che possano aiutare a raggiungere le finalità della legge. Allo stesso tempo però ci sono altre parti della 194 che dovrebbero essere applicate e non lo sono.

La 194 garantisce l’obiezione di coscienza, ma prevede anche che il servizio debba essere sempre garantito. Tuttavia, in molti ospedali italiani il tasso di medici obiettori supera il 60%, arrivando in alcuni casi al 100%. Questo blocca il funzionamento della legge. Inoltre, non solo i medici, ma anche anestesisti e infermieri fanno obiezione, caso non previsto dalla legge, rendendo inapplicabile il diritto delle donne a interrompere la gravidanza. Andrebbe poi indagato se sono obiezioni di convenienza.

Nel libro anche una lista di “spunti che ho colto dai pro vita”. Ne potremmo discutere in quanto espressione di una parte che si arroga diritti che non ha sulla vita di altre…

C’è una cosa che voglio sottolineare: questo libro non fa attivismo. Sono un giornalista e ho indagato una realtà che è negata dalla società: molto viva, piena di persone diverse, direttamente coinvolte con i pazienti, che lavorano con i medici, burocrati di vario genere, attivisti. Io, con laicità e in modo professionale, ho ascoltato voci e situazioni. Non spetta a  me dire se sono giuste o sbagliate. Spesso le differenze tra le parti sono sfumature. Per me questo libro è un punto di passaggio. Sono certo che ci saranno altre cose che emergeranno; anche nelle presentazioni del libro, nel podcast, stanno uscendo altri elementi. L’importante è che ci sia la voglia di parlarne nel rispetto delle sensibilità di tutte e tutti.

Dopo il caso mediatico esploso grazie alle colleghe de L’Espresso, hai notato maggiore informazione o solo nuovi moduli che scaricano le responsabilità lontano dalle direzioni degli ospedali?

Noi siamo arrivati fin dove potevamo. Sono arrivato a chiedere conto agli ospedali di che cosa avessero fatto, in questi quattro anni, per migliorare la loro comunicazione alle donne che intendevano abortire in quelle strutture e gli ospedali mi hanno detto che hanno cambiato i moduli. Adesso serve uno sforzo collaborativo per fare sì che questa consapevolezza diventi una realtà. Io, come giornalista, mi devo fermare alla richiesta che ho fatto agli ospedali e alle risposte che ho ricevuto.

A distanza di 46 anni dall’entrata in vigore della 194, si dibatte ancora sull’aborto. Con il tuo libro tu vai oltre…

Il dibattito si concentra troppo spesso su “aborto sì o aborto no”, ignorando temi cruciali come il “dopo aborto”. Ho raccolto testimonianze di donne che si sono sentite ri-vittimizzate scoprendo che i feti erano stati sepolti senza il loro consenso o informazione. È una dimensione poco conosciuta, che merita più attenzione.

Qual è il problema principale che hai riscontrato nella comunicazione ospedaliera?

La mancanza di informazione. La normativa italiana prevede che sotto le 20 settimane la sepoltura del feto avvenga solo su richiesta della donna. In molti casi le donne non vengono informate e le decisioni vengono prese automaticamente dagli ospedali, che spesso delegano questa responsabilità a organizzazioni che si offrono di farlo gratuitamente. Organizzazioni religiose, come l’Armata Bianca o Difendere la vita con Maria, che hanno come missione quella di dare sepoltura ai feti. Ma non sono loro i “cattivi” di questa storia. Il problema risiede negli ospedali, che non informano adeguatamente le donne e sfruttano queste collaborazioni per ridurre i costi e gestire la questione burocratica.

Serve un impegno maggiore da parte degli ospedali per garantire informazione e rispetto dei diritti delle donne. In alcune regioni italiane, come la Lombardia, esistono normative locali che rendono obbligatoria la sepoltura per tutti i feti, anche sotto le 20 settimane, indipendentemente dalla richiesta della donna. La discrepanza tra regioni mostra la necessità di una maggiore uniformità e chiarezza normativa.

C’è un filo conduttore nelle esperienze delle donne con le quali hai parlato?

Ci sono state donne che, con grande coraggio e generosità, hanno scelto di condividere con me esperienze molto intime. Non è stato facile per loro, ma è stato fondamentale per il mio lavoro. Ogni storia, per quanto simile per alcuni aspetti, è unica nei dettagli e nei percorsi emotivi.

Per esempio, alcune donne non hanno percepito come negativo il ritrovare il nome del feto su una croce al cimitero. Per loro è stato un modo per riappropriarsi di una perdita e dare un senso a quel lutto, anche se non avevano avuto modo di scegliere. Questo è emblematico di quanto le emozioni possano variare. Alcune donne si sono sentite tradite dalla violazione della privacy, ma per altre quella stessa situazione è diventata un’opportunità per elaborare il dolore.

La questione principale che tutte le donne hanno evidenziato è il senso di tradimento. Non è accettabile che una donna scopra, anni dopo un aborto, che fine abbia fatto il feto. Molte si sono sentite private della possibilità di scegliere non solo se seppellire il feto, ma anche come farlo.

Ci sono state storie estremamente dolorose. Ad esempio, alcune donne che hanno provato a recuperare i resti del feto, ed è il caso di Brescia, dove hanno rapidamente rimosso tutto. E lì c’erano anche donne che avevano sepolto i feti e li visitavano regolarmente: un’ulteriore aberrazione di questa vicenda.

C’è unità tra le diverse generazioni di donne sul tema dell’aborto?

No, esiste una frattura evidente. La generazione che ha lottato per la 194 spesso ricorda ai giovani quanto sia stato difficile ottenere questo diritto. “Tu puoi abortire grazie a noi. Se vuoi migliorare le cose, fatti sentire come abbiamo fatto noi”. Questo è un messaggio che molte attiviste e professioniste della vecchia generazione trasmettono alle più giovani.

Tuttavia, il dibattito in Italia è rimasto bloccato sul “se” si possa abortire anziché sul “come farlo al meglio”. Oggi le donne vogliono poter vivere questa esperienza in modo dignitoso, sicuro e senza traumi inutili.

Parlare di aborto e basta, significa fare di ogni erba un fascio?

Sì, ci sono due realtà molto diverse. L’aborto nei primi tre mesi è spesso percepito come un atto volontario, mentre quelli nel secondo trimestre sono generalmente legati a gravidanze desiderate che vengono interrotte per motivi medici. È difficile includere queste esperienze nella stessa narrazione, perché coinvolgono emozioni, aspettative e dolori molto diversi.

In Italia, gli aborti tardivi sono particolarmente complessi. La legge prevede che il feto venga rianimato se nasce vivo durante un aborto terapeutico, e tecniche come il feticidio, termine sgradevole per indicare l’interruzione di gravidanza tramite iniezione intracardiaca per fermare il cuore del feto, non vengono utilizzate nella maggior parte delle strutture. Questo aggiunge ulteriore stress emotivo e medico alle donne.

Come si può migliorare la gestione dell’aborto in Italia e anche del dopo?

La chiave è fornire un’informazione completa e accessibile. Le donne devono sapere esattamente cosa accadrà prima, durante e dopo l’aborto. Inoltre, la formazione del personale medico dovrebbe includere anche aspetti legati alla comunicazione e all’empatia.

In alcune regioni, come la Lombardia, ci sono normative locali che obbligano alla sepoltura di tutti i feti, indipendentemente dalle settimane di gestazione. Questa discrepanza normativa tra le regioni rende il sistema ancora più confuso. Serve un approccio uniforme e più rispettoso verso le donne. Soprattutto, ma questa è una cosa che alcune strutture stanno modificando, non si può dare 24 ore di tempo a una donna per prendere una decisione anche sul “dopo”.

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