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L'epica rinasce? Una recensione de «Il gladiatore II» di Ridley Scott

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Sono trascorsi 24 anni dall’uscita del film Il gladiatore, il capolavoro di Ridley Scott che ha reinterpretato il cinema storico agli inizi del XXI secolo. Ora, il regista britannico è tornato con un sequel di medio pregio, che tenta di combinare maestosità visiva e narrazione epica. Al centro della storia, Lucio Vero (Paul Mescal), figlio di Lucilla, costretto a confrontarsi con un destino personale avvolto nelle trame dell’Impero, sotto la guida corrotta degli imperatori Geta e Caracalla.

Come prevedibile, le inesattezze storiche non mancano. E anzi, spesso sono del tutto palesi. Ma del resto, quale film che si ispiri a vicende del passato non si concede la licenza di omissioni, tratti romanzati o esagerazioni? Spesso qui il regista ci impone di accettare il patto narrativo e usa il trucco del prestigiatore: tenta di compensare le lacune di trama con un uso generoso di effetti speciali e sensazionalismi.

Della regola narratologica di inserire in un racconto almeno un personaggio dinamico, cioè uno che maturi il modo di agire e pensare nello sviluppo della trama, l’unico che accenna un’evoluzione è Lucio. Le altre sono pressoché tutte figure statiche. Anche se l’interpretazione migliore spetta a mani basse a Denzel Washington, nel ruolo di Macrino, un personaggio machiavellico e carismatico, doppiogiochista e spregiudicato scalatore sociale, ma capace di dominare la scena con presenza magnetica. Sebbene pure Pedro Pascal, nei panni del generale Acacio, arricchisca la pellicola con alcuni colpi di scena. Certamente, nulla che si avvicini al Russel Crowe (Massimo), al Joaquin Phoenix (Commodo) o all’Oliver Reed (Proximo) di quasi un quarto di secolo fa. Ma del resto ci eravamo ripromessi di non fare paragoni.

Un tratto assolutamente pregevole, anche se ahimè non opportunamente valorizzato, è il ricorrere qua e là a citazioni classiche, che conferiscono una patina di solennità alle scene in cui si inseriscono.

Ai più attenti non sarà sfuggita l’esortazione che all’inizio del film il protagonista Lucio, sotto l’alias di Annone, rivolge ai soldati numidi quando la flotta romana si vede all’orizzonte, pronta a conquistare la regione: «Fanno un deserto e lo chiamano pace». Si tratta di una delle massime più celebri dello storico romano Tacito, che nell’opera Agricola, dedicata alle gesta del suocero Giulio Agricola, fa pronunciare a Calgaco, capotribù dei Caledoni, queste esatte parole: «Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant», «Dove fanno un deserto lo chiamano pace».

Accanto a Tacito riecheggia la lezione del filoso greco Epicuro, vissuto tra il IV e il III secolo a. C. «Dove ci siamo noi non c’è morte; dove c’è morte non ci siamo noi», ammonisce Lucio-Annone. Ebbene questo è forse l’insegnamento fondamentale dell’epicureismo, dottrina che postulava il raggiungimento della felicità attraverso il tetrafármacon, uno strumento di pensiero capace di liberare l’uomo dalle sue quattro paure peggiori: 1) la paura degli dèi; 2) la paura della morte; 3) la mancanza di piacere; 4) il dolore fisico. A ciascuno di questi timori corrispondeva una risposta logica, come appunto l’impossibilità di sovrapporre la morte con l’esistenza e viceversa.

La svolta alla trama la dà un verso del VI libro dell’Eneide di Virgilio: «Facile è scendere nell’Averno, giorno e notte la porta di Dite è aperta; ma ritornare sui propri passi e uscire alla luce, qui sta lo sforzo e la difficoltà». Con queste parole l’augusta Lucilla riconosce nel gladiatore Annone il figlio Lucio, ritenuto morto.

E spesso le riflessioni più attente sono sollevate da Macrino, in un dialogo con Lucilla, le confida di aver avuto il privilegio di leggere le riflessioni di suo padre, Marco Aurelio. Si tratta della raccolta di meditazioni che l’imperatore filosofo aveva annotato in greco nei suoi quaderni. Lui, che da stoico, era sempre stato più attratto dal fascino della filosofia, che non dalle incombenze della politica. E sappiamo che il vero Macrino era un fervido ammiratore di Marco Aurelio. Era stato il prefetto del pretorio di Caracalla e, dopo che aver assassinato colui che avrebbe dovuto tutelare, fu imperatore per 14 mesi, tra il 217 e il 218.

Ma quando filosofia e letteratura cedono il passo ai combattimenti nell’arena, Scott ci consegna sequenze suggestive, un po’ splatter forse, ma di grande impatto. Le battaglie, coreografate con una brutalità che evoca l’originale, mantengono alta la tensione e l’emozione. La stessa brutalità che si ravvisa nei meandri della politica e del potere, che esplora la corruzione dell’Impero e la lotta per la libertà.

I difetti però non possono essere trascurati, visto che vanno a inficiare la godibilità complessiva. La vicenda ricalca troppo il primo leggendario Gladiatore. Cominciando da una trama che è in fondo molto simile alla pellicola del 2000, per finire ai continui richiami al generale Massimo e al «sogno di Roma», che strizza molto l’occhio al pubblico americano e all’omonimo «sogno».

Si ha a più riprese la sensazione che lo sviluppo narrativo stia per svoltare in senso epico; salvo poi essere ricatapultati nel più banale film d’azione dall’ennesimo combattimento. Proprio l’eccessivo utilizzo delle scene di tenzoni, che siano guerresche, gladiatorie o semplici scazzottate con esseri umani o babbuini assassini, rappresenta un ulteriore punto critico. Non tanto perché siano eseguite male (sono visivamente eccezionali), quanto piuttosto perché si ha la netta sensazione che i continui combattimenti vadano a discapito dello sviluppo della storia, che appare nel suo complesso come soltanto abbozzata ma non scandagliata a dovere.

Lo stesso personaggio di Macrino non viene approfondito, ed è un gran peccato perché c’era il potenziale per renderlo uno dei villain più iconici del cinema recente. Il cambiamento di Lucio è fin troppo repentino e non adeguatamente caratterizzato, mentre i personaggi ereditati dal primo Gladiatore, Lucilla e il senatore Gracco, sembrano più comparse che veri e propri trade d’union con il prequel.

Sicuramente non si può parlare di una rinascita o continuazione del genere epico storico. Niente a che vedere con i precedenti come Quo vadis? (1951), Ben-Hur (1959) o Il primo re (2021). Il film si inserisce tuttavia nel pieno solco della grande cinematografia legata a Roma antica, una produzione che globalmente conta oltre 200 pellicole.

Volete un parere? Inutile fare il confronto con il primo film: qualunque tentativo sarebbe pietosamente vano. Tanto vale cercare di salvare il salvabile.