“Ero un profugo di Gaza, ma ho creduto nel mio sogno e ora con ‘From Ground Zero’ porto la Palestina agli Oscar”. Il messaggio di speranza di Rashid Masharawi
“Io alla fine sono solo un profugo che viveva a Gaza in una tenda con i miei genitori, ma sono rimasto attaccato al mio sogno. Se ci sono riuscito io a fare cinema, possono riuscirci anche gli altri”. Rashid Masharawi, a Roma per la proiezione di due film di cui è rispettivamente regista e produttore – “Passing dreams” e “From Ground zero” – parla del cinema come del suo magico tappeto volante, in grado di trasportarlo fisicamente fuori da Gaza, dove è nato nel 1962, ma anche come via di fuga mentale, come mezzo per costruire una storia oltre la narrazione che il mondo cuce addosso a chi come lui, non è solo un grande regista, ma un cineasta palestinese, l’unico in attività nella Gaza occupata degli anni ’80 e ’90, il solo a puntare non tanto sui documentari, ma su opere di finzione, con cast esclusivamente locali.
Primo regista palestinese ufficialmente selezionato per il Festival di Cannes per “Haifa” nel 1996, in anteprima mondiale al Cairo Film Festival con “Passing Dreams” in questi giorni, porterà agli Oscar nel 2025 “From Ground Zero”, un lavoro collettivo realizzato dopo il 7 ottobre 2023 da 22 registi gazawi, che attraverso cortometraggi dai tre ai sei minuti, mescolano fiction, documentario, docufiction, cinema sperimentale e persino animazione. Tra gli ospiti d’onore del Medfilm Festival 24 di quest’anno, è stato alla Sapienza per una masterclass sul cinema. Gli ho chiesto quale messaggio vorrebbe che gli studenti portassero con loro dopo la lezione: “Io parlo come come regista, non specificatamente come regista palestinese. – racconta – Posso usare Gaza e l’esperienza che abbiamo fatto in quel contesto, soprattutto per incoraggiare gli studenti a seguire i propri sogni, a fare i propri film perché, se a Gaza molti giovani sono riusciti a realizzare i loro progetti cinematografici, nonostante le condizioni estreme, allora vorrei dire ai ragazzi italiani che devono continuare, insistere, andare avanti, trovare la loro personale storia da raccontare. – continua il regista e produttore – I sogni possono avverarsi, io ne sono convinto. Spesso parlo con studenti che tirano fuori molte scuse, ma io non le accetto. Dico: ‘Ok, non lo puoi fare in quel modo, allora in che modo lo puoi fare? Quale altra soluzione troverai?’. Forse questo atteggiamento mi viene proprio dall’essere una persona nata in un campo profughi (Masharawi è nato nel campo profughi di Al-Shati, a nord della Striscia di Gaza, da una famiglia di rifugiati da Giaffa, ndr). L’unico modo in cui sono andato avanti è insistendo. La mia esperienza personale può essere per loro un’ispirazione e un incoraggiamento. Alla fine i miei film sono stati premiati a Cannes, a Berlino, in tanti altri festival internazionali: se ci sono riuscito io, possono riuscirci anche loro”.
La conversazione è un’occasione per parlare anche dei movimenti di solidarietà nei confronti della causa palestinese che hanno ripreso forza in tutto il mondo: “Mi fa moltissimo piacere quando vedo tutto questo perché, anche se non ha cambiato nulla sul terreno di guerra, fa comunque la differenza per i palestinesi, soprattutto a Gaza – spiega il cineasta – In questo momento là si sentono completamente soli, isolati. Così, quando hanno la possibilità di vedere, di leggere che ci sono persone nel mondo che li sostengono, che non accettano quello che sta succedendo, questo dà loro speranza ed energia”. E ci è voluta molta speranza e molta energia per portare a termine i 22 corti di “From Ground Zero” superando una serie di ostacoli come la mancanza di elettricità, l’assenza di internet “anche per 4 o 5 giorni di seguito”. Masharawi racconta che le persone sul posto cercavano continuamente una connessione, ma spesso era presente solo nelle tende dei giornalisti a fianco agli ospedali, che sono però tra i luoghi più pericolosi a Gaza a causa dei bombardamenti israeliani. “Una volta un gruppo è andato via da Deir Al Balah, dove c’è l’ormai noto ospedale di Al Aqsa – Medici senza Frontiere ha riportato che l’11 novembre è stato colpito per l’ottava volta, ma rimane uno degli ultimi 3 ospedali parzialmente funzionanti per circa 750.000 persone – alle 3 del mattino e tre ore dopo, alle 6.15 l’Idf ha bombardato. Altri hanno rischiato la vita per portare un hard disk da Khan Younis al valico di Rafah perché al confine con l’Egitto ci sono sim che funzionano anche dentro Gaza”.
Tuttavia, al di là delle difficoltà materiali, la sfida più grande, come mi spiega ancora il regista palestinese “è stata continuare a incoraggiare le persone a mandare avanti il progetto perché sono sì cineasti, ma sono anche persone che lottano per la loro sopravvivenza“. L’aspetto più positivo del grande successo del film, la sua partecipazione a 80 festival internazionali, è stato quello di mostrare ai registi di Gaza che la loro opera poteva avere un impatto sul mondo. “Quelli che non hanno partecipato a “From Ground Zero”, ora hanno visto che è stato selezionato per Toronto, per gli Oscar, e stanno realizzando film per conto loro. – dice Masharawi soddisfatto – Sette fra coloro che hanno partecipato a questo progetto, stanno facendo con la mia Fondazione 4 documentari lunghi che si chiameranno “From Ground Zero+”. Vedere che il film ha avuto un impatto nel mondo li ha aiutati anche ad attraversare, non dico a superare, ma ad attraversare il trauma enorme che stanno vivendo”. come il protagonista di “Sorry cinema“ che all’inizio ha rifiutato di seguire il suo sogno perché suo fratello era appena morto. Poi, dopo qualche settimana Masharawi lo ha ricontattato e gli ha detto: ‘Parlami di questo, parlami del fatto che non ce la fai a pensare al cinema perché hai perso tuo fratello, perché devi pensare a come sopravvivere alla fame e al dolore”. Così è nato “Scusa cinema”, perché il regista palestinese Ahmad Hassouna chiede scusa al cinema (e a se stesso) per aver messo – ma solo per poco – da parte i suoi sogni”.
La speranza come forma di resistenza è sempre al centro del racconto di Masharawi, che nel 1996 ha fondato a Ramallah, nella Cisgiordania occupata, il Cinematic production center per sviluppare il cinema palestinese e organizzare proiezioni nei campi profughi. La speranza dei bambini, che sono spesso protagonisti dei suoi film, come Sami (Adel Abu Ayyash) in “Passing dreams”, che inseguendo il suo piccione viaggiatore, convinto che l’uccello sia scappato e tornato al suo luogo d’origine, inizia un viaggio che lo porta dal campo profughi dove vive al muro di separazione ad Haifa. O come i tanti bambini interpreti, ma anche co-autori, di uno dei cortometraggi più toccanti di “From Ground Zero” ossia “Soft skin” di Khamis Masharawi. “Immaginate cosa significhi creare un worshop con 30 bambini in una scuola improvvisata dentro una tenda in una zona di guerra. – spiega Masharawi – Io ho immaginato che insegnare loro la tecnica dello stop-motion fosse più di questo, fosse una specie di trattamento, di terapia per la loro psiche”. Perché il rischio che queste generazioni di bambini, che patiscono la fame, la sete, il freddo, ma soprattutto la rabbia, la paura, la perdita di ogni punto di riferimento – la “pelle delicata” è la loro, quella sulla quale le madri scrivono con i pennarelli i loro nomi dappertutto affinché vengano riconosciuti anche se fatti a pezzi da una bomba isrealiana – siano generazioni perdute “è altissimo, è vero, ma non si può abbandonare la speranza. Mai”.
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