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Auto, il passaggio all’elettrico è impossibile da fermare: spetta alla politica attutire le asperità

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Spesso si afferma che l’Ue non ha una strategia ben precisa in quasi tutti i campi. A giudicare però dai comportamenti sembra che una strategia ci sia, quella di seguire passivamente le decisioni degli Usa. Questa comportamento sempre a rimorchio lo si è visto nella politica monetaria, guidata dalla Fed. È emersa tragicamente nelle scelte militari completamente allineate sulla Nato a trazione Usa, che improvvisamente ha trasformato anche l’anti-Nato Meloni nel suddito più fedele e ubbidiente.

Tocca ora alla politica industriale e in particolare a quella del settore dell’automotive. Pochi mesi fa l’amministrazione Biden ha varato un aumento del 100% dei dazi sulle auto cinesi. L’obiettivo dichiarato è quello di difendere quel 10% di lavoratori Usa impegnati nel manifatturiero, in particolare nel settore automobilistico. Anche l’Europa si è ora allineata al nuovo mercantilismo Usa, cominciato da Trump e continuato da Biden, anche se con meno entusiasmo. Le tariffe già esistenti del 10% saranno aumentate di un altro 30% in media, così da rendere più care, e dunque meno competitive, le auto cinesi.

La decisione europea è stata un po’ contrastata perché vede i due principali paesi costruttori, Francia e Germania, su sponde opposte. La Francia è fieramente per il protezionismo, mentre la Germania dissente. L’industria tedesca dell’auto di fascia alta ha nella Cina un importante mercato di sbocco e si temono contraccolpi molto negativi, già visibili peraltro. La scelta mercantilista dell’Europa, più dazi, serve in teoria per scongiurare un destino simile a quello dell’industria dei pannelli solari. Negli anni Ottanta questo era un settore emergente in Europa ma poi l’industria cinese ha preso il sopravvento e oggi domina incontrastata i mercati internazionali.

L’energia solare al mondo è made in Cina. L’aspetto positivo è che la Cina ci aiuta nella trasformazione climatica, quello negativo è che sottrae posti di lavoro all’Europa. Ma mentre il settore dei pannelli solari era emergente e quindi non esisteva, ben diverse sono le conseguenze per l’automotive che ha caratterizzato lo sviluppo economico del dopoguerra in Europa. Colpire l’auto è mettere a rischio non solo il reddito, ma anche la democrazia economica europea. I dazi doganali ci salveranno? In parte sì, nel breve periodo, e in parte no, nel medio periodo.

L’invasione delle auto asiatiche è uno spettacolo che abbiamo già sperimentato negli anni Ottanta. Strano che nessuno se ne ricordi. Oggigiorno milioni di europei comprano auto dei marchi come Honda, Nissan o Toyota. Eppure nessun politico si sognerebbe di tassare con dei dazi doganali queste auto delle case asiatiche. La ragione è semplice. Il marchio è asiatico ma la produzione europea. Per fare un esempio, non saprei se la Toyota Aygo che mia figlia ha comprato l’anno scorso sia stata costruita in Francia, Polonia o Turchia. La strategia Toyota è stata semplice. Non potendo vendere le auto in Europa, si sono comprati pezzi dell’automotive. Così hanno soddisfatto i consumatori, con auto di buona qualità ed economiche, e i governi, non si sono persi posti di lavoro.

Toyota è partita dall’Inghilterra e poi si è ampliata in altri paesi. Lo stesso è accaduto, e in maniera ancora più pesante, negli Usa. In definitiva, non conta la sede del marchio, ma dove si producono le auto. E anche la Cina si sta muovendo in questa direzione con una strategia di penetrazione industriale e commerciale. Stellantis si è già convertita al nuovo paradigma cominciando a distribuire le auto cinesi di Leapmotor. Fra dieci anni le auto cinesi avranno piena cittadinanza nel mercato europeo come quelle giapponesi, coreane o indiane. La cortina dei dazi sarà ampiamente superata.

Poiché la trasformazione del settore dell’auto è impossibile da fermare, la famosa e benefica distruzione creatrice dell’economista Schumpeter sempre citata, dove sta allora il problema? Il problema acuto è quello di gestire la fase traumatica della trasformazione. Sicuramente alcuni impianti vernano chiusi, altri trasformati, altri ancora aperti disegnando una nuova geografia dell’industria automobilistica nel continente europeo. Può darsi che qualche produttore scompaia. In Italia sono scomparsi molti produttori, ora sotto l’egida di Stellantis e forse qualcuno di essi sarà nel medio periodo assorbito dal gigante dell’auto elettrica cinese BYD, che vale due volte Tesla nei volumi di vendita.

Spetta allora alla politica attutire le asperità di questa trasformazione che, se nel lungo periodo porta benefici per tutti, nel breve può causare tensioni anche molto forti. Per far questo sono necessari due ingredienti, idee e risorse che però sembrano mancare al ministro delle Imprese e del Made in Italy (ex sviluppo economico) Adolfo Urso. L’approccio della neutralità ecologica del governo Meloni è solo un palliativo e allunga l’agonia. Poi le risorse destinate alla trasformazione dell’industria dell’auto sono veramente esigue. Non ci sono soldi per accompagnare l’industria dell’automotive italiana, nostro vero orgoglio nazionale, ma ci sono invece per aumentare gli sconti fiscali ai lavoratori che fra un po’ verranno licenziati.

Insomma, la politica industriale italiana sembra carente da tutti i punti di vista. Credo che appellarsi sempre al Made in Italy come ancora di salvezza abbia stufato anche i più incalliti sovranisti.

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